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Algeria, dall’Autunno di Marquez all’Estate di Camus?

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Elezioni rinviate “sine die”, mentre ancora si studiano le reazioni della piazza. Lakhdar Brahimi sembra essere l’uomo del cambiamento, a cui spetterà il compito di riformare e democratizzare il Paese traghettandolo a nuove elezioni. Già capo della diplomazia algerina agli inizi degli anni novanta, è comparso di fronte alle tv di stato e ha dichiarato che Bouteflika “ha ascoltato la voce del popolo, soprattutto quella dei giovani”. Nato in Algeria nel 1934, durante gli anni della guerra di liberazione, tra il 1956 e il 1962, è rappresentate del Fln (Fronte di liberazione nazionale) in Asia. Fino al 2014 è stato Inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la Siria, accettando di succedere a Kofi Annan, dopo aver rappresentato l’Onu in Afghanistan dal 1997 al 1999 e poi di nuovo dal 2001 al 2004, dopo la cacciata dei Talebani. Importanti i suoi interventi in Libano (fino alla pace di Taef, che nel 1989 mette fine alla guerra civile) e in Iraq, dove nel 1997 attiva il dialogo tra Bagdad e le Nazioni Unite.

Oggi è membro del Gruppo dei Saggi dell’Unione africana e docente della prestigiosa Science Po di Parigi, Dipartimento d’Affari Internazionali. Uomo del dialogo, di altissimo profilo internazionale, mai toccato da scandali o corruzione, c’è da scommettere che avrà un ruolo chiave in questi lunghi mesi di transizione che attendono l’Algeria, se saprà arpeggiare le note del cambiamento, come richiesto ancora a gran voce attraverso i social.

Ma come dichiara a Le Monde Olivier Appert, direttore del Centre Energie dell’Ifri, Istituto francese delle relazioni internazionali, il cambiamento deve passare anche attraverso l’economia. “L’Algeria è malata di petrolio”, titola il servizio, e non ha saputo trovare alternative ad una economia basata quasi esclusivamente sullo sfruttamento del sottosuolo. Un quarto del Pil, il 95% delle esportazioni derivano dal petrolio, la cui resa è calata in dieci anni (2007-2017), sia in termini quantitativi, passando da 2 milioni al giorno a 1,5 milioni al giorno, che remunerativi, da 120 dollari al barile nel 2014, a 30-40 alla fine del 2015. Mutamenti legislativi disomogenei non avrebbero migliorato la situazione: le tre ultime e differenti leggi sugli idrocarburi avrebbero creato disorientamento tra gli investitori che si sono rivolti altrove.

Insomma, grandi speranze sono ora riposte in Brahimi. E la mossa era forse nell’aria da tempo. Non più tardi del settembre scorso, interrogato dal canale “Algerie Monde Infos” su un suo eventuale ritorno sulla scena politica algerina, aveva declinato l’idea per questioni anagrafiche, ma di fronte all’emergenza attuale quelle parole appaiono ormai molto lontane. Del resto, già di fronte alla sfida siriana, Brahimi aveva dichiarato: “Suppongo di essere abbastanza vanitoso da poter pensare che, con l’esperienza che ho, se mi chiedono di intervenire in una situazione del genere non posso rifiutare, anche se sono molto, molto preoccupato per la difficoltà di ciò che devo affrontare”.

Intanto la Francia osserva la situazione con il fiato sospeso. In queste ore, l’algerino Bernard Henri Levy si domanda in un Tweet se “l’Algeria passerà dall’Autunno del Patriarca di Gabriel García Márquez a l’Estate a Tipasa di Camus”, cioè dalla dittatura alla fioritura radiosa a cui la sua terra sarebbe predestinata dalla bellezza classica, quasi mitologica che la contraddistingue. Abbandonando ogni poesia conclude: “Dipenderà dalla mobilitazione degli algerini, ma anche dei pericolosi servizi segreti, che, immagino, non hanno ancora detto la loro ultima parola”.

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