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Svendiamo il nostro atlantismo per meno di un miliardo di euro. Il #NoMoU di Dottori

OBOR, cina venezie

Cedere una posizione simbolica all’interno della sfera atlantista in cambio di investimenti che non dovrebbero superare il miliardo di euro, prendendoci un rischio enorme: è questa la sintesi estrema dell’intervista analisi che Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e consigliere scientifico di Limes, rilascia a Formiche.net a proposito dell’adesione italiana alla Belt & Road cinese.

Poche domande aperte per lasciare spazio a uno dei migliori analisti del mondo accademico italiano di svariare su una serie di argomenti che riguardano la dimensione strategica dell’Italia attuale e futura, con un occhio alle relazioni con gli Stati Uniti dopo l’avvicinamento a Pechino.

Su Twitter ha lanciato (con discreto successo!) l’hashtag #NoMoU, dove “MoU” sta per memorandum of understanding, ossia il documento con cui l’Italia deciderà di aderire alla Belt & Road cinese: perché “no”? Facciamone un’analisi costi/benefici.

L’analisi costi-benefici di questa operazione a me pare purtroppo molto semplice. A fronte di investimenti che per espressa ammissione del Sottosegretario Geraci non supereranno i due miliardi di euro, noi cediamo una posizione politica di alto valore simbolico: saremo il primo Paese del G7 ad aderire alla Belt and Road Initiative. Parliamo di un progetto con il quale la Repubblica Popolare Cinese ed il suo Partito comunista stanno cercando di proiettare la loro influenza politica ed economica su tutta la periferia dell’Eurasia. Le ambizioni sono grosse e molti da noi sono certi che i cinesi riusciranno nei loro intenti. Io sono invece convinto che a Pechino verrà dato molto filo da torcere. E non solo dagli americani. Si muovono gli indiani. E i giapponesi stanno sviluppando una politica globale il cui unico scopo è limitare il successo dei cinesi.

Ma allora, chi ce lo fa fare?

Credo ci siamo risolti a questo passo per una serie convergente di fattori, di cui solo alcuni possono considerarsi economici. Ci sono innanzitutto fattori locali: città portuali che sperano in un rilancio ed imprese che pensano di poter ottenere appalti all’estero. Ma la verità è che per il momento le uniche cose che siamo certi di esportare in maggiori quantità sono le arance e, pare, seme bovino. Buon per i nostri tori. Il New York Times ha in effetti spiegato in un pezzo firmato da Jason Horowitz che molto del Made in Italy veicolato tramite le Vie della Seta consisterà in beni cinesi assemblati da nostra manodopera e poi venduti sui mercati mondiali come si trattasse di prodotti italiani. Sfrutteranno anche il nostro marchio-paese, altro che storie. Non mi pare che nessuno abbia commentato la notizia.

I nostri esportatori avranno maggiore concorrenza cinese sui mercati in cui la reputazione italiana conta. Ai genovesi, che cedettero un tempo il diritto di innalzare la propria bandiera agli inglesi, questa storia dovrebbe ricordare qualcosa. Onestamente, ho dubbi sulla convenienza dell’operazione che viene intrapresa, specialmente a fronte dei costi politici che si profilano. Che saranno alti anche in assenza di specifiche rappresaglie americane. Va peraltro tenuto conto del fatto che probabilmente pesa sulla nostra posizione anche il desiderio della Santa Sede di poter accedere ad un altro mercato, quello delle anime cinesi. Forse, con il tempo, riusciranno a convertire la Cina, un antico sogno dei Gesuiti. Ma anche i cinesi hanno capacità rilevanti di calcolo strategico a lungo termine. Chi può escludere che un giorno Pechino, tramite il potere sulla designazione dei vescovi che le stanno per garantire, non riesca a portare un cinese sul Soglio di Pietro?

Abbiamo più o meno capito che l’adesione alla Bri non è soltanto una faccenda di politica economica, come parti del governo italiano stanno da tempo provando a far passare, ma si tratta di un’intesa tra stati dal carattere molto più ampio. Cosa c’è in ballo: può davvero spostare l’asse della proiezione strategica italiana?

Se questa firma fosse giunta in un altro momento storico, avrebbe certamente avuto un impatto meno dirompente. In Italia sono pochi coloro che hanno davvero capito che il sistema internazionale sta ristrutturandosi su basi nuovamente bipolari. Nel migliore dei casi, ci attende una guerra fredda combattuta a suon di dazi, tariffe ed embarghi strategici più o meno mascherati. È già in atto. Nel peggiore, si potrebbe anche giungere alla guerra vera e propria. La preoccupazione sta crescendo. Negli Stati Uniti ha avuto un discreto successo un saggio che ne parla: “Destinati alla guerra”, di Graham Allison. Un best seller. L’ho letto. Dovrebbero farlo in molti, soprattutto tutti coloro che oggi ostentano tranquillità. Io non condivido questo stato d’animo.

Il contenimento della Repubblica Popolare era già iniziato con la presidenza Obama, tramite il Partenariato transpacifico che doveva escludere la Cina, mai andato in porto. Adesso Pechino colonizza anche la faccia nascosta della Luna. E con le infrastrutture per l’utilizzo delle tecnologie del 5G è sul punto di impadronirsi della capacità non solo di informarsi tramite i metadati, ma di gestire le nostre vite. Nella Repubblica Popolare, chi esprime sui social punti di vista poco graditi viene escluso dal commercio on line o dalla possibilità di viaggiare all’estero. Fa pensare.

È cambiato il contesto globale…

Il clima è cambiato repentinamente. Sonde cinesi e commercializzazione del 5G sono state per Washington sorprese simili a quella provata nel 1957, quando i sovietici mandarono in orbita il loro primo Sputnik. Gli americani stanno rispondendo a modo loro: è stato costituito a tempo di record un Comando delle forze spaziali che la dice lunga. Le pressioni che stanno esercitando nei nostri confronti in questi giorni non sono capricci di un partner geloso che si sente tradito senza averne motivo: esprimono invece un autentico senso di urgenza ed allarme che sarebbe sbagliato sottovalutare. Qui non è questione di cedere a diktat o abdicare alla sovranità nazionale, come qualcuno polemicamente afferma. Si tratta di essere prudenti, tenendo conto dei rapporti di forza e del bene comune degli italiani, che non meritano di rimanere stritolati da dinamiche molto più grandi di loro.

Capitolo Donald Trump: domanda fondamentale anche perché “Capire Trump” (come riporta il titolo del suo nuovo libro in uscita a maggio), e l’alleato americano, sarebbe stato utile per muoversi in maniera differente su certi enormi dossier. Possiamo dire che se il governo italiano avesse capito Trump, forse non avrebbe scelto di aderire alla Bri? 

Una parte del governo italiano a mio avviso ha perfettamente compreso l’opportunità che l’arrivo di un presidente come Trump può rappresentare per una media potenza come la nostra. Passando dal controllo di prossimità del mondo ad uno per così dire “da remoto”, la sua amministrazione sta obiettivamente restituendo margini di sovranità a molti Paesi, incluso il nostro, che però è distratto dalle sue problematiche interne. Anche la volontà di contenere la forza della Germania e le ambizioni della Francia, evidenti a più riprese in Trump, ci ha finora notevolmente aiutato. Costituisce in teoria una grossa carta nelle nostre mani. Il problema è che non è stato capito quanto il Presidente americano si preoccupi anche della Cina. La teme ancor più dei tedeschi, che non spendono 200 miliardi di dollari all’anno in armi. Gli americani vogliono evitare che cinesi e tedeschi si saldino in un blocco che andrebbe dal Baltico al Pacifico, modificando gli equilibri globali.

Ora che occasione sta perdendo Roma nell’allineamento con Washington?

Il nostro Paese in questo schema occupa un ruolo cruciale. Serviamo a Pechino per meglio penetrare nell’Europa ed al tempo stesso anche agli Stati Uniti per veicolare la loro influenza verso il cuore del nostro Continente, ora che la Gran Bretagna sta uscendo dalla Ue. Stiamo scegliendo la Cina: in assenza di correttivi convincenti, il MoU “politico” può essere il preludio di una forma di secessione morbida dalla Nato. Ma attenzione: sul punto, dentro il governo, c’è molta più dialettica di quanto si creda. E non è escluso che si trovi in futuro il modo di rimediare, come io mi auguro. Il rischio però di aver gettato al vento una straordinaria opportunità per rilanciarci, secondo me è molto concreto. Vorrei aggiungere un’ultima considerazione: sono in molti a credere che l’ascesa della Cina faccia piacere anche alla Russia e che esista un compatto blocco eurasista che sfida l’Occidente atlantico. Io non ne sono per niente convinto ed al Festival di Limes, appena svoltosi a Genova, ne ho avuto la riprova, sentendo russi e cinesi insistere che quella tra di loro è solo una partnership temporanea di convenienza, e non un’alleanza. Le Vie della Seta ravviveranno la sindrome d’accerchiamento di cui Mosca soffre quasi “per costituzione”, ponendo in pericolo le sue posizioni in Asia centrale esattamente come l’Europa (non gli Stati Uniti!) ha eroso quelle che aveva in Ucraina. Sembra paradossale, ma il successo di Xi probabilmente avvicinerà l’accordo tra Trump e Putin. Aiuterà entrambi a piegare le rispettive opposizioni interne alla grande riconciliazione.


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