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A vent’anni dalla guerra l’Italia e Kfor decisivi per la sicurezza nei Balcani

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Era il 24 marzo 1999 quando cominciarono i bombardamenti della Nato contro il presidente serbo Slobodan Milosevic per la pulizia etnica contro la minoranza albanese nel Kosovo; era il 12 giugno quando cominciò la missione Kfor, due giorni dopo la fine dei bombardamenti. Vent’anni più tardi il Kosovo è una nazione diversa e la missione dell’Alleanza è ancora lì, dove resterà ancora molto a lungo. L’anniversario ha fornito lo spunto del convegno su “I Balcani occidentali al bivio. La Nato, Kfor e il ruolo dell’Italia”, prima iniziativa dell’Oss Med, l’Osservatorio per la stabilità e la sicurezza del Mediterraneo allargato dell’Università Lumsa, diretto dal professore Matteo Bressan che ha curato il volume omonimo.

Kfor è ormai un tutt’uno con l’Italia. Il generale Luigi Francesco De Leverano, sottocapo di Stato maggiore della Difesa, ha ricordato che su 23 comandanti 10 sono stati italiani e lo sono senza interruzioni dal settembre 2013. Nel giugno 1999 entrarono in Kosovo 50mila militari, oggi la missione conta su 4mila unità di 30 nazioni (22 della Nato e 8 partner), di cui poco più di 500 italiani. Uno degli ex comandanti di Kfor, il generale Francesco Paolo Figliuolo che oggi è al vertice del Comando Logistico dell’Esercito, ha spiegato che la normalizzazione del Kosovo “è dovuta alla possibilità di ingresso nell’Unione europea” e, pur se i problemi non sono finiti, “la percezione della sicurezza è buona e la polizia kosovara ha compiuto passi da gigante”. In sostanza, la missione è “un sensore avanzato della comunità internazionale e della Nato nei Balcani” perché per decidere se una missione deve continuare o meno serve conoscere la situazione reale sul terreno. A questo proposito, oltre all’ovvio mantenimento della sicurezza, la missione comprende i Liason Monitoring Team inseriti in ogni settore della società che consentono al comandante di avere un quadro chiaro. Secondo Figliuolo, anche i serbi vedono in Kfor un grande strumento di stabilità. Per il futuro, l’Unione europea dovrebbe stanziare investimenti per aiutare soprattutto i giovani: si supererebbe un sotterraneo risentimento verso la Nato e si aiuterebbe il Pil che oggi è legato soprattutto a traffici illeciti.

Lo sguardo di Kfor, però, non deve limitarsi al Kosovo. Il generale Giovanni Fungo, altro ex comandante della missione e oggi alla guida della Formazione, specializzazione e dottrina dell’Esercito, ha detto chiaramente che “l’impegno sarà ancora lungo”. Se Kfor per la Nato è “la missione più lunga e di maggiore successo”, dimostrato dal miglioramento della vita della popolazione e dei passi in avanti delle istituzioni, in Bosnia i veterani della guerra protestano perché chiedono pensioni migliori, la Serbia si avvia verso elezioni “non semplici” con proteste dell’opposizione, la Macedonia (dopo l’accordo sul nuovo nome di Repubblica della Macedonia del Nord) sta ottenendo i consensi necessari per entrare nella Nato. E il Kosovo “oggi è un altro posto”, preservando cultura e tradizioni. Riconoscimenti al ruolo della Nato e dell’Italia sono venuti dall’ambasciatore del Kosovo, Alma Lama, per la quale “il giorno di ingresso delle truppe fu il più importante della storia”, e dalla rappresentante dell’ambasciata serba.

I Balcani, però, sono anche bacino di integralisti e terra di passaggio di jihadisti soprattutto sulla rotta proveniente dall’Afghanistan: Figliuolo e Fungo hanno confermato la presenza di strutture della missione in tutta l’area per acquisire informazioni. Sarà anche vero, come ha detto Fungo, che i Balcani sono “fascino allo stato puro” per cultura, usanze e tradizioni, ma sono a un’ora di volo dall’Italia e, come ha suggerito De Leverano, “guardano verso Est, ma cominciano dove finisce casa nostra”.

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