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Vi spiego la grande geostrategia cinese per il commercio e la difesa

La linea primaria di intervento della Repubblica Popolare Cinese, soprattutto sui mari, è quella di difendere i propri interessi strategici e militari, ma senza, in ogni caso, mettere in difficoltà le linee commerciali e i rapporti economici tra Pechino e il suo vicino.

Si pensi, qui, alla questione delle Spratly, ma anche alla posizione cinese sulla nazionalità delle Senkaku, poi alla pressione, nel 2017, che l’India fece su Pechino per bloccare la strada che i cinesi avevano progettato ai confini del Bhutan.

Le tensioni della Cina nel suo estero vicino, da questo punto di vista, hanno interessato immediatamente il Giappone, le Filippine, la Malesia e il Vietnam. Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno i confronti navali con gli Usa del maggio 2009, soprattutto con le Usns Impeccable e Victorious, per il diritto a operare nelle 200 miglia marine al largo delle Zone Economiche Speciali cinesi.

Gli Usa non amano affatto la protezione che la Cina fa dei suoi mari regionali, ma sarà difficile modificare il meccanismo di piena copertura delle sue coste, da parte di Pechino, che inibisce in parte l’uso dei vecchi e tradizionali check-point, da Malacca alle Paracel, alle Ryuku, tutte aree, peraltro, in cui gli Usa potrebbero imporre un blocco al flusso commerciale e militare del naviglio cinese. Ed è questo, ancora, il primo obiettivo della sicurezza navale regionale di Pechino.

Ecco, qui, uno dei tratti strategici primari della Belt and Road Initiative: uscire dal quadrante marittimo orientale e, quindi, compensare credibilmente, con una presenza geo-economica significativa sullo Hearthland dell’Asia Centrale lo squilibrio inevitabile della formula strategica cinese sui suoi mari regionali.
E creare, per Pechino, una possibilità di contromossa militare (ma anche geo-economica) tale da bloccare l’avversario sul mare o, da solo, sui suoi confini terrestri.
Quindi, l’obiettivo è la sicurezza piena e la assoluta libertà di manovra, per Pechino, nell’ambito del “primo cerchio” delle isole periferiche, ma con la possibilità di proiettare, oltre questo limite, un significativo potere di interdizione. Ma, sul piano geo-finanziario e economico, i dirigenti cinesi, ed è questo uno dei significati strategici essenziali della Belt and Road Initiative di Xi Jinping, sanno bene che le crisi finanziarie globali, quelle ormai passate; e anche quelle che stagliano oggi all’orizzonte, rendono l’economia cinese troppo vulnerabile ai flussi globali. Il che è ancora più grave se si è programmato, come hanno fatto i leader cinesi dalle Quattro Modernizzazioni di Deng Xiaoping in poi, uno sviluppo economico di tipo neo-mercantilista, tutto basato sulle esportazioni. Né, allora, c’era modo di fare altrimenti.

Poi, ci sono le tensioni in Tibet e nello Xingkiang. Che hanno anche un rilievo geo-economico. Nel 2000, lo ricordiamo, il governo di Pechino lanciò un “Grande Programma di Sviluppo per le Regioni Occidentali”, per porre finalmente le aree terrestri dello Xingkiang e dell’area tibetana, che è peraltro essenziale per la difesa N e per l’intelligence cinese, in stretto rapporto con lo sviluppo economico delle coste.

Anche questo è un tracciato logico utilissimo, per comprendere bene la Belt and Road Initiative. Ma, anche sul piano militare che, nella logica di Pechino, è strettamente legato alla decisione politica, tutti i “Libri Bianchi” delle FF.AA. cinesi, del 2008 e 2009, hanno sempre sottolineato, fino ad oggi, la regola delle “tre funzioni e un ruolo”. È, questo, un criterio razionale e operativo, ovvero si tratta di: a) provvedere, da parte delle FF.AA., la forza per consolidare il ruolo dirigente del Partito, da sempre il primo fine della Pla, poi, b) di provvedere il sostegno per sfruttare questo periodo di grande opportunità strategica per la Cina, c) poi di provvedere anche il sostegno per la difesa degli interessi nazionali cinesi e, infine, d) di poter giocare un ruolo importante nel mantenere la pace nel mondo e promuovere lo sviluppo economico globale.
Non sono parole al vento, sono programmi.

Qui si dice, tra le righe, che, oltre i mari regionali e le reti esterne ai confini, la Cina opererà in modo da non creare tensioni definitive con i suoi concorrenti o alleati.
Quello che bisogna sapere è, quindi, che il Pcc, oggi, ha la massima urgenza, nel dover definire uno stabile sviluppo economico per la Cina. Trenta anni fa, la leadership del Pcc ha sostenuto, e la storia le ha dato ragione, che la guerra tra le superpotenze non sarebbe mai avvenuta, sulla linea del pensiero di Mao Zedong, secondo il quale l’imperialismo “era una tigre di carta”. E una tigre di carta regionale, sovietica, euro-americana e, in parte, mediorientale, dove nessuno aveva l’interesse a sparare il primo colpo. Ma Pechino pensava già all’Asia, all’Africa, al “terzo mondo” privo di “capitalisti” o di “revisionisti” sovietici, lasciato come pascolo per una nuova grande potenza in crescita, che non si era rovinata con la folle guerra fredda, la Cina, appunto.

Ora, e anche questo è implicito nella Belt and Road Initiative, è ovvio per la dirigenza attuale di Pechino che ci debbano essere altri 30 o 40 anni di pace e di sviluppo, per permettere alla Cina di trasformarsi davvero in una stabile e grande potenza. Sul piano, quindi, della dottrina strategica attuale, la Cina si è adattata, finora, a combattere quella che gli strateghi di Pechino definiscono “una guerra e mezzo”, ovvero si può e deve poter combattere, con successo, una guerra maggiore ai propri confini; oltre a resistere, con estrema efficacia, e efficacemente, ad attacchi portati intorno ad altri confini cinesi. Mettiamo anche nel conto, qui, la stabile guarnigione indiana di 60mila uomini nel Tibet meridionale; oltre alla recentissima alleanza Quad 2.0 tra Usa, India, Giappone e Australia, nata proprio per contrastare la Belt and Road Initiative.
In questo caso, abbiamo a disposizione tutto il quadrante delle potenzialità e dei contrasti che si stagliano davanti alla Belt and Road.

Naturalmente, non bisogna dimenticare nemmeno che il Giappone e l’Australia dipendono oggi, almeno per il 22% del loro commercio estero, dalla Cina, quindi è molto improbabile che la tensione regionale e militare si trasformi in uno scontro vero e proprio. Ma, in ogni caso, Pechino si prepara, nella sua pianificazione strategica futura, a resistere ad una invasione indiana da terra e da sud-est e a condurre, simultaneamente, uno scontro navale regionale vittorioso, soprattutto nell’area periferica di Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale.

Certo, la Cina attuale porta avanti, simultaneamente, la Belt and Road Initiative, la Rcep, ovvero la Regional Comprehensive Economic Partnership, con i dieci Stati dell’Asean e i sei con cui l’Asean ha ulteriori trattati di libero scambio, poi con l’Area di Libero Scambio Cina-Asean; ma gli Usa hanno creato già la loro rete commerciale e economica anti-Bri con l’Usmca, lo US.-Mexico- Canada Trade Agreement, poi con il probabile ritorno di una proposta del vecchio Ttp, Trans-Pacific Partnership o, ancora, il nuovo Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership.

Quindi, se gli Stati Uniti stanno ricostruendo un loro centro di gravità geo-economico in Asia, che Washington ritiene interesse militar-commerciale primario, è ovvio quindi che la Cina si sia indirizzata in Africa, dove gli Usa non si impegnano, oggi, in modo particolare. Un gioco zen del vuoto e del pieno, dove ognuno rappresenta entrambe le caratteristiche.

Sul piano politico e tecnologico, gli Usa stanno mettendo in seria difficoltà Pechino, soprattutto con la recente creazione di una speciale agenzia detta Review of Controls for Certain Emergent Technologies, un ufficio per il controllo “dual use” riguardante le biotecnologie, l’intelligenza artificiale, i sistemi evoluti di navigazione e posizionamento, l’analisi dei dati e soprattutto dei big data, la robotica e le biotecnologie.

È questo, infatti, il panorama più ampio dello scontro sulla Huawei e il 5G della Rete che, come si può immaginare, è molto più importante della semplice organizzazione di una rete internet evoluta. Nella US Cyber Strategy 2018, si sostiene, per esempio, che Washington deve “vincere due guerre cyber simultaneamente” e queste sono, evidentemente, guerre contro la Federazione Russa e, soprattutto, contro la Cina.

Se, quindi, gli Usa di Donald J. Trump non riusciranno a vincere in pieno la loro attuale guerra commerciale con Pechino, essi potrebbero utilizzare il leverage cyber per riequilibrare la bilancia del potere globale, con una evidente e necessaria, dal punto di vista politico-militare, azione di sostegno da parte degli altri Paesi della Nato.
L’uno sarà utilizzato in carenza dell’altro, tanto maggiore sarà la presenza commerciale cinese nei settori-guida, tanto maggiore sarà la predisposizione di una guerra cyber contro Pechino. E viceversa.

Ma c’è di più, per quel che riguarda lo scontro tra Washington e Pechino e, quindi, per quel che riguarda il necessario e logico passaggio della Cina verso un più stretto legame con la Ue, i suoi singoli componenti, il resto del mondo. Il National Defense Authorization Act Usa del 2019, pubblicato del 13 agosto 2018, per esempio, si concentra sulle operazioni della cinese Zte, mentre si proibisce al governo Usa l’acquisto di tutti i materiali dalla Huawei, come è ormai ben noto, ma anche dei prodotti della Dahua, che si occupa di videosorveglianza, oltre che della Hytera, che produce sistemi radio evoluti e, infine, della Hikvision, il più grande produttore al mondo, oggi, di sistemi per la videosorveglianza. In tutti i documenti ufficiali del governo Usa, e ciò accade ormai da tempo, la Cina è peraltro vista come un pericoloso competitor quasi di pari grado e potenza.

Realistico progetto? Sì e no. Sul piano tecnologico, forse in futuro, sul piano finanziario e commerciale, non ancora. Ma qui si tratta di tuer dans l’oeuf, “uccidere nell’uovo”. E non dobbiamo quindi dimenticare che, sempre nell’agosto 2018, gli Usa di Trump ha annunciato il 25% di tariffe e dazi in più su 50 miliardi di importazioni/anno in Usa provenienti dalla Cina, poi le altre e ulteriori tariffe e dazi del 10%, su altri 200 miliardi di beni cinesi in arrivo negli Usa; e poi ancora, nel settembre scorso, ulteriori dazi sull’import cinese in Usa, con altri 267 miliardi.

In autunno, gli Stati Uniti hanno poi reso note, all’interno della Assemblea Generale dell’Onu, le “probabili” operazioni di influenza della Cina contro il (solo?) Partito Repubblicano nelle elezioni di Midterm mentre, nello stesso periodo, Terry Branstad, attuale ambasciatore Usa in Cina dal 2017 “amico di Xi” e, per ben due volte, governatore dello Iowa, ha pubblicato un articolo in cui egli condanna le “operazioni di influenza” della Cina in Iowa.

Washington ha, inoltre, fatto grandi pressioni su El Salvador, poiché esso non rompesse con Taiwan, ma poi gli Usa hanno esercitato ulteriori pressioni, e molto forti, sul Fondo Monetario, al fine di bloccare un finanziamento per il Pakistan che sarebbe andato, in parte, a ripagare vecchi prestiti a Islamabad da parte della Cina.
Anche la mossa di uscire, da parte degli Usa di Trump, dal trattato Inf, cosa che riguarda, apparentemente, soprattutto la Federazione Russa, ha comunque l’effetto di mettere sotto pressione militare anche la Cina.

Ma c’è il bastone e anche la carota, per i futuri amici degli Usa in Asia: sempre nello scorso agosto, infatti, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto un pacchetto di aiuti finanziari per l’Asia per 300 milioni, ai quali se ne aggiungerebbero altri 133, ma solo per un sostegno specifico alle imprese private operanti nell’area. Sta poi entrando in azione il Build Act, che ha creato una nuova agenzia governativa Usa, la U.S. International Development Finance Corporation, con ben 60 miliardi di usd di finanziamenti americani già disponibili verso l’estero, soprattutto asiatico, una evidentissima risposta alla Belt and Road Initiative.

Cosa farà, quindi, Washington, in futuro, dato che lo scontro bilaterale con la Cina è ormai visto come strutturale? Sicuramente, la battaglia sui dazi continuerà, e ormai è possibile che, in due sole altre mosse, tutto l’import cinese in Usa sarà fortemente e molto selettivamente tassato. E, in ogni caso, gli Usa cercheranno di colpire le imprese che più sono attive nel progetto che è stato denominato, da Pechino, il made in China 2025. Il progetto della attuale dirigenza cinese è modellato su quello, tedesco, noto come Industria 4.0, ed è già impostato sull’upgrade tecnologico generalizzato delle imprese cinesi, pubbliche e private, con l’aumento prestabilito dei componenti di produzione nazionale dal 40% del 2020 al 70% nel 2025.

Poi, c’è la costruzione dei centri per l’innovazione produttiva, già in fase avanzata, che saranno 15 nel 2020 e 40 nel 2025, vi sarà inoltre una modifica e un forte rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale interna. Il focus dell’innovazione sarà soprattutto su: 1) una nuova tecnologia dell’informazione, 2) sulla robotica e l produzione automatizzata di beni finali e strumentali, 3) sull’Aerospazio e l’aeronautica, 4) per lo l’Hi-Tech Shipping, 5) sulle ferrovie, 6) per i veicoli con nuovi sistemi di energia e movimento, 7) sull’energia, 8) per le tecnologie agricole, 9) sui nuovi materiali, 10) sul biopharma e le tecnologie avanzate biomedicali. In tutti questi settori, non si fa parola, nei testi ufficiali cinesi, dell’“innovazione autonoma”, come invece accadeva nei precedenti progetti che datano dal 2006; e qui non si tratta di sola innovazione, ma di interi processi produttivi. Innovazione autonoma è attività interna, qui il governo di Pechino ci fa intuire una attività di ricerca e sperimentazione globale e aperta alla collaborazione con Ue, Giappone, Corea.

Ecco, gli Usa colpiranno quindi, quando potranno, proprio in questi settori, evitando, nei limiti del loro possibile, ogni tipo di trasferimento tecnologico o, comunque, di informazione scientifica ad hoc. Inoltre Washington, in futuro, avrà modo di convincere sia il Giappone che l’Ue a pratiche contro la Cina di tipo nettamente sanzionatorio e di aperta restrizione commerciale, e non solo tecnologica; e certamente l’Italia farà dura esperienza di operazioni di questo tipo, che esse siano note o meno ai nostri Servizi. Come risponderà allora Pechino? Probabilmente, con un dialogo duro e serrato, ma con qualche concessione significativa, verso gli Usa. Poi, la dirigenza cinese avrà la possibilità, proprio nell’ambito del suo programma di upgrade tecnologico, di aumentare lo spazio non-statale nel suo sistema produttivo, infine Pechino cercherà nuovi mercati esteri. Ecco la prima risposta del Pcc. Molto probabilmente, la dirigenza di Pechino eviterà anche il carico ulteriore del debito pubblico sulle imprese e, soprattutto, limiterà fortemente la crescita della speculazione immobiliare.

Poi, Pechino farà molta spesa per investimenti produttivi, come già si ipotizza dal suo Piano 2025, e cercherà nuovi mercati esterni, soprattutto (ma non solo) con la Belt and Road Initiative. Oggi, è bene ricordarlo, i Paesi della Bri valgono il 27,3% del totale del commercio estero cinese con i soli Usa. Poi, Pechino svilupperà presto ottimi accordi di libero scambio regionali, come con il Regional Comprehensive Economic Partnership e con l’Asean allargata. Niente vieta un grande accordo con l’India, poi.
Ma l’interesse commerciale di Pechino sarà, soprattutto, in futuro, verso il Giappone e la Corea del Sud.

Nel frattempo, gli Usa potranno valutare attentamente il costo, militare e commerciale, di una guerra economica completa contro la Cina, che non sarà certo irrilevante.
In questo contesto si situano i deboli e stanchi interessi della Ue, che non conosce il suo destino, e quindi non l’avrà, e anche dell’Italia, che potrebbe utilizzare, ma non lo potrà fare, il potenziale della Belt and Road ma anche, e soprattutto, non avrà modo di uscire dalla pressione Usa, strategica, militare e finanziaria.


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