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La nuova Via della Seta cinese e il risiko geopolitico

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Dall’ingresso della Cina nel WTO (Word Trade Organization), avvenuto 11 dicembre 2001, sono passati quasi 18 anni. Un tempo sufficiente per capire se le ottimistiche previsioni di quel periodo si siano o meno verificate. O se al contrario i dubbi, che solo qualche mente illuminata aveva avanzato, si sono dimostrati poi così nefasti, come allora indicato. Il periodo, come è facile osservare, coincide, più o meno con la nascita dell’euro. Si inscrive in quel lungo ciclo che ha caratterizzato la maturità del processo di globalizzazione. Fenomeni sui quali sarebbe necessario metterci la testa. Specie da parte di quelle forze politiche italiane – i 5 Stelle soprattutto – che hanno visto crescere i propri consensi, proprio nel rifiuto di quella prospettiva.

Ed invece – cosa inspiegabile – è scoppiato un grande ed improvviso romantico amore. La “nuova Via della Seta”: questo l’oscuro oggetto di desiderio. Dalle incerte origini – la polemica tra Giulio Tremonti ed il Foglio – e dai contorni ancora indefiniti e sconosciuti del memorandum of understanding (MoU). Atto scarsamente impegnativo, come assicura il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ma già in grado di scatenare, sul terreno diplomatico, una bagarre senza precedenti.

Il meno che si possa dire è che il governo italiano – o meglio il solo azionista di maggioranza – si stia muovendo contro tendenza. Il riferimento a precedenti accordi già conclusi tra la Repubblica popolare ed alcuni Paesi europei (Patto economico 16 + 1 conta) conta poco. Furono sottoscritti in epoca diversa, quando l’interrogativo sul ruolo geopolitico della Cina non era ancora una preoccupazione dominante. Si trattava inoltre di piccoli Paesi (soprattutto Ungheria, Grecia e Portogallo) che non avevano lo standing italiano. E non appartenevano al G7, con il peso specifico che ha l’Italia nei grandi equilibri europei ed occidentali.

In seno allo stesso WTO si discute ancora sul contenuto dell’articolo 15. Se la Cina debba avere, per le sue caratteristiche, il pieno riconoscimento come “market economy”. Ossia essere pienamente equiparata allo status dei principali Paesi che fanno parte di quell’organizzazione. Mentre altri Paesi come la Russia di Putin o l’Arabia Saudita, per questi stessi motivi, furono ammessi al Club solo molti anni più tardi. Problema di una certa importanza, considerato il pericolo insito nelle esportazioni cinesi: possibili oggetti di un dumping permanente a danno dei propri partner commerciali.

Le motivazioni che, nel 2001, portarono all’accettazione della Cina, in sede al WTO, erano diverse. Allora la sua appartenenza al novero dei Paesi più arretrati era evidente. Si sperava, pertanto, che ad un maggior sviluppo economico potesse corrispondere una vera e propria rinascita democratica. Il vecchio assioma liberista, secondo il quale esisteva un rapporto biunivoco tra la forza del mercato ed il prevalere delle libertà individuali. Calcolo, in questo caso, dimostratosi assolutamente infondato. Che la Cina sia cresciuta dal punto di vista economico, andando oltre qualsiasi possibile previsione, è evidente. Ma ancor più evidente è stato il consolidarsi del lato sempre più oscuro della suo regime politico.

Paradossalmente a questo risultato hanno contribuito le asimmetrie del processo di globalizzazione. Nei Paesi più sviluppati si è assistito ad una crescente divaricazione sociale. Un establishment sempre più ricco e più ristretto, contro una moltitudine sempre più ampia e sofferente. Terreno fertile per l’acquisizione di quei prodotti, forniti dalla Cina, che sebbene di qualità inferiore, avevano tuttavia il vantaggio di un costo minore. In Cina, invece, le esportazioni dei Paesi occidentali, salvo che nel caso dei beni di investimento, che dovevano riequilibrare la partita, trovano le limitazioni di un mercato interno, la cui crescita dipendeva principalmente dalle politiche dirigistiche degli apparati politici. Molto più disponibili, invece, a favorire gli investimenti esteri, a loro volta sostenuti dal mercato finanziario internazionale: a condizione che essi garantissero adeguati trasferimenti di tecnologia.

Nessuna meraviglia, quindi, sui risultati ultimi del relativo modello: da un lato il forte avanzo della bilancia commerciale cinese. Dall’altro il deficit dei principali partner commerciali, con la sola eccezione della Germania: principale esportatore di impianti e beni d’investimento. Uno squilibrio reso per diversi anni permanente dalla continua manipolazione del cambio, mantenuto particolarmente basso per favorire, appunto, la penetrazione commerciale all’estero. E per avere a disposizione crescenti risorse finanziarie: impiegate sia per aumentare le proprie riserve valutarie, sia per realizzare quei grandi investimenti, all’estero ed in patria, indispensabili per realizzare quel salto tecnologico, che ora caratterizza i settori di punta della produzione cinese: dai comparti più avanzati della meccanica, alle comunicazioni (il 5G), all’aerospazio e via dicendo.

C’è voluto del tempo, prima che l’Occidente avesse piena consapevolezza di quanto stava accadendo. Si attribuisce a Donald Trump la scelta del pugno duro contro l’invadenza dei prodotti “Made in China”. Ma il problema era stato già istruito dal Dipartimento di Stato, sotto la presidenza di Barack Obama. Il nuovo inquilino della Casa Bianca non ha dovuto far altro che farsi consegnare quel dossier e declinarlo con le caratteristiche tipiche del suo “politically incorrect”. Il tutto mentre la stessa Cina, ormai consapevole dei punti di forza conquistati, dava al progetto, inizialmente un po’ romantico, della “nuova Via della Seta”, un significato geopolitico sempre più evidente.

Questo è lo scenario effettivo che uomini come Giuseppe Conte o Luigi Di Maio rischiano di non comprendere. La partita che si sta giocando non è né economica né finanziaria. Anche se vi sono risvolti di questa natura. È una partita tutta politica, in cui la Cina ha accumulato un forte vantaggio nei confronti di tutto l’Occidente. In questa specie di risiko, che si combatte con gli strumenti del warfare, che esclude solo l’intervento militare aperto, l’Italia deve decidere da che parte stare. Può abbandonare il proprio campo di gioco ed aprirsi completamente a questa nuova avventura. O può rimanere nel solco di una più antica tradizione. Ma non può fare la bella addormentata per mantenere il piede in due scarpe.

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