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Perché sui conti il governo non può più galleggiare

Difficile non concordare con Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, quando, ha invitato il governo, durante l’intervista con Lucia Annunziata, a “darsi una mossa”. Dopo i dati disastrosi, evidenziati da ultimo dal Centro studi della sua organizzazione, non è più tempo di “galleggiare”. Serve, al contrario, un “intervento organico di politica economica”, ha detto. E se questo obiettivo non è nelle corde dell’attuale maggioranza, allora “meglio andare a votare”. E (si deve aggiungere) sperare. Sperare che dal confronto elettorale possa venir fuori una classe dirigente degna di questo nome. Ossia capace di riconoscere la natura dei drammatici problemi del Paese ed adoprarsi per farvi fronte.

La crisi italiana – è bene non dimenticarlo – dura ormai da quasi dieci anni. Inizia nel 2008, a seguito del fallimento della Lehman Brother, ma da allora si trascina nonostante i cambiamenti intervenuti negli equilibri politici del Paese. Dal centrodestra di Silvio Berlusconi, al governo dei tecnici di Mario Monti, per passare poi per le varie gradazioni del centrosinistra e, infine, al governo gialloverde. Periodo in cui tocca, forse, il suo culmine relativo. In futuro si vedrà. Ebbene, durante questi dieci anni, mentre tutti gli altri Paesi europei recuperavano il terreno perduto, l’Italia continuava non solo ad annaspare, ma, come un sonnambulo, si agitava in un labirinto senza uscite. Ancora oggi non esiste una diagnosi condivisa, tra le varie forze politiche. Le relative proposte sono solo funzionali alla difesa delle proprie posizioni elettorali. Domina l’illusione che un piccolo o grande spostamento di voti possa essere risolutivo. Il che può consolidare posizioni di potere, ma se, al tempo stesso, non contribuisce a delineare una prospettiva, è come ballare sul Titanic. Lottare per conquistare la prima classe. Ma poi subire il tuffo gelido nelle acque dell’Atlantico.

Questa consapevolezza si sta via via diffondendo nel Paese. Non solo tra la sua classe dirigente. Vedi appunto Confindustria. Ma in strati sempre più ampi di quella classe media, che ne costituisce la spina dorsale. E che è sempre più insofferente rispetto ai massimalismi che si incrociano nell’arena della politica. Quando si discute della Commissione d’inchiesta sulle banche, ad esempio, non c’è solo stupore. C’è fastidio, oltre che preoccupazione. Quel sentimento che Sergio Mattarella, prima, e Giovanni Tria, poi, hanno seppure con parole diverse, cercato di evocare. Attenti a non fare sciocchezze con l’antimafia delle banche – copyright di Pier Ferdinando Casini – la situazione italiana è fin troppo fragile, per subire ulteriori contraccolpi. Tra il sistema bancario e la società italiana esiste una sorta di rapporto biunivoco. La crisi degli istituti bancari è stata, in larga misura, il riflesso della crisi dell’economia italiana, unita a fenomeni di mala gestio. Prego: rileggersi l’intervento di Fabio Panetta, nella sua audizione parlamentare sulla Carige. Ma picconare, ora, il sistema bancario significa aggravarla. Fino ad un possibile collasso.

Il Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, in polemica con il suo Ministro dell’economia, che aveva espresso preoccupazioni analoghe, dopo essersi soffermato sul rischio di una recessione che non consente misure correttive dal punto di vista finanziario, ha cercato di difendere i turbamenti che agitano i 5 stelle. “Non mi sembra – ha replicato – che ci siano i presupposti per parlare di attacco alle banche”. Il che, naturalmente, è vero: visto che la Commissione, bene che vada, si costituirà dopo le elezioni europee. Ma si può far finta di non vedere ciò che finora è stato sotto gli occhi di tutti. Vale a dire il ritardo con cui il Quirinale ha provveduto alla promulgazione della legge. Che ancora oggi non è sulla Gazzetta Ufficiale. La lettera che ne ha accompagnato la sofferta decisione. Il monito rivolto ai due Presidenti di Camera e Senato. Forse per l’avvocato del popolo tutto ciò è ordinaria amministrazione. Peccato, invece, che si tratti di un evento che ha ben pochi precedenti nei rapporti tra il potere legislativo ed il Colle, nell’esercizio delle sue funzioni di garante della Costituzione. Colle, che avrebbe potuto anche rinviare la proposta di legge in Parlamento, ma ciò avrebbe contribuito ad esasperare gli animi e rendere più incombenti le minacce di crisi.

Si dice che anche Luigi Di Maio si sia reso conto dei possibili pericoli. Che si sia preoccupato di rassicurare il Presidente della Repubblica. Adombrando una sorta di possibile ripensamento sulla figura del Presidente della commissione. Non più il senatore Gianluigi Paragone, il cui standing non sembra proprio rispondere ai requisiti necessari – vale in questo caso, la lunga tradizione della Commissione antimafia – per ricoprire l’incarico. Grande ira, quindi, di Marco Travaglio che sul Fatto quotidiano sbraita: perché il presidente “non dovrebbe essere un parlamentare del partito di maggioranza relativa, Gianluigi Paragone, che conosce la materia e sarebbe comunque tenuto a rispettare i ‘paletti’, fissati dal Colle prima di firmare la legge istitutiva?”. A dimostrazione di quanto poco rassicuranti siano state, appunto, le parole del Presidente del Consiglio. Quanto alle questioni sollevate da Travaglio, vale esattamente il contrario. In genere i presidenti delle commissioni d’inchiesta, essendo organi di garanzia, come riconosciuto dalla maggior parte dei costituzionalisti, dovrebbero essere presiedute da un esponente dell’opposizione. Mentre sulle competenze dell’ex conduttore della Gabbia, di cui tutti hanno potuto apprezzare le doti di equilibrio e di non faziosità, è del tutto inutile controreplicare.

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