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La Corea del Nord minaccia Washington. A rischio i negoziati?

Il vice-ministro degli Esteri nordcoreano ha convocato oggi (nella notte ora italiana) a Pyongyang una conferenza stampa in cui ha annunciato che il dittatore Kim Jong-un è in una fase di riflessione e starebbe pensando se riprendere o meno i test nucleari e missilistici, perché Pyongyang potrebbe decidere di interrompere i negoziati avviati con gli Stati Uniti finalizzati alla denuclearizzazione del Paese.

“Non abbiamo né l’intenzione di scendere a compromessi con gli Stati Uniti in nessuna forma, né tanto meno il desiderio o il piano di condurre questo tipo di negoziazione”: il virgolettato del viceministro è dell’Associated Press, il cui corrispondente in Corea del Nord era presente al briefing. Il funzionario ha ricordato che la decisione di sospendere i test è stata “autoimposta” dal regime (come una sorta di prova di sincerità), ma in qualsiasi momento si può ritornare indietro.

Gli Esteri sono il ministero usato dal regime nordcoreano per tenere in piedi la retorica storica – quella che vede nel confronto militaresco con Washington una ragione esistenziale – e dunque questo genere di dichiarazioni sono sempre da prendere con le giuste pinze. Zeppe di propaganda, utili anche a rassicurare i più reazionari che vedono nel dialogo avviato tramite la catalizzazione di Seul una forma di debolezza (la Corea del Sud ha già diffuso una nota presidenziale in cui spiega che sta lavorando per mantenere sotto controllo la situazione).

Kim deve mantenere il potere, e dunque deve marcare entrambe le linee: soprattutto in questo momento in cui è tornato dal Vietnam, sede dell’ultimo faccia a faccia con Donald Trump, senza risultati, se non quello di aver constato che fondamentalmente l’approccio americano al dossier non è cambiato granché. Washington vuole vedere il denuke prima di concedere allentamenti sulle sanzioni – Pyongyang vorrebbe il processo inverso, o quanto meno un percorso a fasi in cui l’abolizione delle sanzioni più stringenti proceda via via con le attività con cui il Nord bloccherebbe il suo programma nucleare.

Oltretutto le ultime elezioni del regime hanno uscire alcuni segnali delicati per il satrapo: per la prima volta nel paese, il leader della dinastia al potere non risulta tra le liste degli eletti, mentre pare che il fratello minore di Kim si stia costruendo un ruolo più influente.

L’attacco nordcoreano odierno ha mire specifiche: il segretario di Stato, Mike Pompeo, e John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, hanno creato “un’atmosfera di ostilità e sfiducia”, dice il viceministro, che ha ostacolato i negoziati dei vertici di Hanoi lo scorso mese. La targetizzazione serve a preservare Trump: è noto che il presidente abbia delle posizioni per certi versi più concilianti, tratta la questione denuclearizzazione come un deal affaristico, e dunque è disposto a maggiori concessioni pur di raggiungere l’obiettivo. Pompeo e Bolton sono invece considerati falchi che stanno tenendo un punto più severo, nonostante il primo abbia gestito la pratica tenendo anche contatti diretti con il regime asiatico.

Non è la prima volta che Pyongyang cerca di giocare su queste differenze, che sono anche per certi versi genetiche tra Trump e alcuni suoi collaboratori (il Nord li chiama “i gangster” dell’amministrazione americana) che, soprattutto sulla politica estera, mantengono una visione più classica rispetto a quella da businessman vocato all’accordo incarnata dal presidente.

Su queste nuove tensioni potrebbe pesare anche quel che è successo a Madrid, appena pochi giorni prima del summit di Hanoi, quando il 22 febbraio un commando a volto coperto ha fatto irruzione dentro l’ambasciata nordcoreana, ha preso in ostaggio alcuni funzionari, frugato e rubato dati e computer, per poi fuggire utilizzando due veicoli rubati all’interno della sede diplomatica senza ancora essere individuati dalle autorità spagnole che hanno avviato l’inchiesta. Secondo El Pais almeno due degli uomini del blitz sono riconducibili alla Cia: stando alle ricostruzioni fatta dal quotidiano tramite fonti anonime, l’obiettivo del blitz era materiale legato all’attività di Kim Hyok-chol, l’ambasciatore spagnolo espulso nel 2017. Tornato in patria è entrato nella cerchia di negoziatori con gli Stati Uniti, al posto dell’epurato Han Song-ryol.


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