Finalmente, dopo un lungo iter, il Parlamento Europeo ha approvato a metà marzo in via definitiva il Regolamento Ue relativo allo “smaltimento” dei crediti deteriorati (Npl) presenti nella pancia delle banche europee. Si tratta di norme che indicano i requisiti di copertura minimi che gli Istituti dovranno rispettare a fronte delle posizioni che entreranno nello status di credito deteriorato dopo l’ approvazione delle nuove norme.
Il problema è che, senza neanche attendere che il Regolamento in esame completasse il suo iter politico – autorizzativo, la Vigilanza europea ha ripreso la sua “ricorsa regolatoria”. Infatti, la Bce, come si evince chiaramente dalla recente lettera al Montepaschi, ha ormai acceso un faro non più solo sulle posizioni entrate nello status di credito deteriorato dopo il 1° aprile 2018, ma anche sullo stock complessivo di Npl detenuto dalle banche. Oltretutto, “aspettandosi” uno smaltimento di questo fardello in tempi piuttosto rapidi. Il grosso problema è che questa sindrome da “smaltimento rapido degli Npl” genererà in Italia danni collaterali per nulla trascurabili anche a causa della gelata economica in veloce avvicinamento. E questo essenzialmente per un problema di velocità relative.
È infatti vero che la riduzione degli Npl secondo un calendario prefissato rende, nel medio lungo periodo, i sistemi bancari più resilienti a fronte di possibili shock sistemici. Tuttavia, nell’immediato, richiedendo alle banche più accantonamenti e più patrimonio, può impedire a queste ultime di sostenere il sistema produttivo italiano ancora in debito di ossigeno. Esiste, a questo proposito, una regola aurea sullo smaltimento degli Npl che recita: “Ogni nuova misura di vigilanza colpisce la banca alle 11 di mattina, ma rimbalza sulle aziende alle 3 del pomeriggio”. Ciò detto, rimane il fatto che, se anche lo smaltimento rapido può essere accettato per le sofferenze conclamate per le quali il ritorno in bonis è aleatorio, certo non può essere applicato tout court all’altra categoria del credito deteriorato detta delle “inadempienze probabili (unlikely to pay – Utp).
E questo perché in questa categoria, a fianco di alcuni casi di imprese mantenute artificialmente in vita, rientrano molte aziende che non presentano affatto problemi strutturali irreversibili. Si tratta, ad esempio, di Pmi vittime di una crisi che da economico-finanziaria si è trasformata in una crisi di incassi e pagamenti, quindi in una crisi di cassa. Dunque, tra le inadempienze probabili troviamo aziende che lottano per rispettare piani di risanamento o di ristrutturazione in corso, o che cercano di ritrovare un equilibrio economico – finanziario grazie a misure di tolleranza (dette di forbearance) concesse dalle banche nel tentativo di riportarle in bonis. L’Accordo sul credito 2019 stipulato tra l’Abi e le principali Associazioni imprenditoriali (Confindustria, Confapi, Confimi Industria etc) che consente alle Pmi in difficoltà di sospendere temporaneamente il pagamento delle rate o di allungare la durata dei finanziamenti rientra proprio in questo contesto.
E allora, il punto focale della questione è che esiste una fondamentale differenza tra le sofferenze e gli Utp: le prime (con qualche eccezione) vanno smaltite, le seconde vanno, invece, “lavorate”. E questo perché si tratta di aziende che, grazie a soluzioni non liquidatorie, possono ancora essere sottratte al fallimento che, in fondo, rappresenta la resa di tutti: imprenditori, banche, fornitori e dipendenti. Ma per lavorare gli Utp ci vuole tempo: un piano di risanamento ha bisogno di almeno 3 anni per dispiegare i propri effetti, come le misure di tolleranza hanno bisogno di tempo per riportare in equilibrio aziende in crisi non irreversibile. E allora il grosso rischio che si corre è che le posizioni in Utp, disperse nel calderone del credito deteriorato, siano assoggettate alle stesse drastiche misure di svalutazione rapida richieste dalla Bce per le sofferenze irrecuperabili. Con danni collaterali anche ingenti.
Potrebbe accadere, infatti – come emerso in una recente tavola rotonda sugli Utp organizzata dalla Fondazione Ugo La Malfa e dall’Abi – che la banca, pressata sia dalle richieste di maggiori accantonamenti, sia dalla necessità di sostenere con nuova finanza l’azienda in difficoltà, possa essere indotta ad abbandonare anzitempo il tentativo di recupero della posizione. Oltretutto, lo smaltimento rapido delle inadempienze probabili appare in forte antitesi anche con lo spirito stesso del legislatore europeo: basti pensare alla proposta di Direttiva europea sui Quadri di Ristrutturazione Preventiva volta proprio ad evitare l’insolvenza dell’impresa in difficoltà. Ma anche a strumenti a sostegno delle imprese quali lo Sme Supporting Factor appena potenziato dagli organi europei. Questa misura, che prevede un minor assorbimento di capitale a fronte di finanziamenti concessi dalle banche alle Pmi, è nata proprio per spingere gli istituti a sostenere le aziende in affanno.
E allora, se si decide che non è importante solo lo smaltimento rapido degli Npl, ma anche il sostegno al tessuto delle aziende, diventa fondamentale che la Vigilanza separi molto più nettamente le posizioni in Utp da quelle in sofferenza conclamata prevedendo, per le prime, misure molto meno invasive. Anche perché va bene la stabilizzazione del fenomeno dei crediti deteriorati, purché non si trasformi, però, in una stabilizzazione tombale delle nostre Pmi.