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Crisi politica, anemia culturale, cura pastorale. Mali e rimedi contemporanei

pell iom paolo vi becchetti

Tutto si tiene, diceva più di un secolo fa Ferdinand de Saussure, insigne semiologo. Ogni discorso, cioè, è regolato da una precisa “sintassi”, in virtù della quale – come vuole l’etimo greco del termine – ciascun elemento sta al proprio posto, che non è mai quello degli altri elementi, anche se è sempre ad essi riferito. La sintassi, difatti, ha una valenza relazionale: significa che il posto di ognuno – perciò anche il compito di ciascuno – è di far sì che anche tutti gli altri stiano al loro posto, assolvano il loro compito. Quando la spunta l’originaria tentazione di occupare il posto altrui e si smette d’esser fedele al proprio ruolo, s’innesca uno squilibrio che finisce per degenerare in rovinoso disordine.

Chi pratica gli sport di squadra lo sa bene. E pure chi suona nelle grandi orchestre, o semplicemente nelle piccole bande municipali. Lo sapevano anche gli antichi pensatori cristiani. Tra loro l’anonimo autore della Lettera a Diogneto risalente alla fine del secondo secolo, primissimo teorico dell’impegno politico dei cristiani, ai quali spiegava che non è lecito disertare il posto loro assegnato da Dio nella società e in seno alle città, di cui sono cittadini a pieno titolo. Del resto non poteva essere che un cristiano a parlare di sintassi politica, inaugurando una rinnovata concezione della democrazia, inedita persino rispetto all’ideale democratico che pur aveva rappresentato sino ad allora il fiore all’occhiello della civiltà ellenistica: la fede trinitaria annuncia appunto una sintassi divina, per la quale il Padre, che come tale genera il Figlio suo, è se stesso in quanto si distingue dal Figlio, ragion per cui pure il Figlio è se stesso se accetta la condizione filiale e quindi non si sostituisce al Padre.

E lo spazio che rimane tra Padre e Figlio si rivela in verità un trait d’union spirituale, un vincolo di vicendevole rispetto e affetto, il Terzo tra loro due. La morale è che, stando al proprio posto, ciascuno è stesso e mette gli altri in condizione di esserlo a loro volta. Per questo, nell’enciclica Laudato si’, Francesco considera un’attitudine tipicamente trinitaria la tensione attrattiva grazie alla quale tutto e tutti, nel cosmo, sono reciprocamente connessi. D’altra parte, anche i biologi, non meno dei fisici e degli informatici, insegnano che tutto è connesso e che il mondo è una sorta di rete, un ecosistema. E dal canto suo, in fin dei conti, il papa non fa altro che segnalare la stretta parentela fra la teologia e le scienze.

Questa riflessione – un po’ esotica per i lettori, l’ammetto – m’è venuta in mente qualche sera fa, uscendo dalla presentazione di un libro sulla storia politica siciliana tra gli anni Cinquanta e Settanta: attraversando una piazza che si slarga tra due monumentali chiese, ho incrociato tre persone impegnate a discutere ad alta voce proprio di politica. Criticavano l’arroganza dei magistrati, che – secondo quei tre – impediscono al nostro ministro dell’Interno di varare la sua splendida legge sulla legittima difesa: ingerenza vergognosa e lesiva di ogni buon diritto degli italiani che, così, non potranno proteggersi da chi viene a invadere la loro patria e le loro case. Siccome tirava un vento gelido, non riuscivo a capire se fosse la birra a farli barcollare e a colorare i loro nasi paonazzi.

Percepivo comunque che il loro guaio peggiore era una grave anemia culturale. E l’imbrunire vespertino, il silenzio tombale che enfatizzava quelle sgangherate parole, soprattutto i battenti chiusi delle due chiese, maestose e tuttavia come invisibili, m’instillavano l’amara intuizione del motivo per cui quei tali potevano parlare come parlavano: qualcuno, da tempo, omologandosi paradossalmente alla retorica del “fare”, ha abdicato alla propria missione. Che non è di mettersi in testa ai cortei di protesta contro la mala amministrazione e contro il governo ladro, come un qualsiasi capopopolo. E nemmeno di tenere il catechismo nelle scuole o nelle aule consiliari. Ma di contribuire peculiarmente – con gli strumenti della formazione e dell’educazione – a che persone oneste e preparate sappiano discernere come e perché stare al loro posto, magari per ben amministrare le nostre città e ben governare il nostro Paese.

Molti, negli anni scorsi, non hanno perso occasione di lamentarsi contro l’impegno culturale che altri, nella Chiesa italiana, tentavano di promuovere. L’attenzione alla storia? Passatismo. Il ripensamento teologico della prassi pastorale? Astrattismo. Il dialogo critico con le filosofie e le scienze? Inutile accademia. L’appello a tornare a pensare? Pericolosa eversione. C’è stata e continua ad esserci diffidenza verso lo sforzo di dotare la presenza ecclesiale di un suo nerbo culturale. Ci si è scordato che culto e cultura sono facce della stessa medaglia. All’improvviso m’è venuta in mente la proposta che il ministro dell’Istruzione – laureato in Scienze (motorie) e insegnante di (educazione) fisica – ha fatto recentemente: abolire negli esami di maturità le prove che verificano le conoscenze storiche degli studenti. E ho pensato che davvero tutto si tiene, anche in negativo.

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