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Debole e ricattabile. Cosa rischia l’Italia con la Via della Seta

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Cartellino arancione. Il governo americano ha rotto gli indugi chiedendo esplicitamente all’Italia di non apporre la firma sul memorandum of understanding per la Belt and Road Initiative, prevista il 23 marzo in occasione della visita del presidente cinese Xi Jinping a Roma. Un tweet senza precedenti del National Security Council (Nsc), l’organo consiliare apicale nel campo della sicurezza, ammonisce: sarebbe un endorsement “all’approccio predatorio cinese agli investimenti e non porterebbe alcun beneficio al popolo italiano”.

“Sono rimasto molto colpito, un avvertimento dell’Nsc via twitter è davvero eloquente”. A parlare dall’altra parte della cornetta è Mauro Gilli, senior researcher dell’Eth di Zurigo, tra i massimi esperti di tecnologia militare. Conosce bene le dinamiche di sicurezza legate alla crescita economica e tecnologica cinese, su cui ha appena scritto con suo fratello Andrea un articolo scientifico per la più prestigiosa rivista al mondo in materia, International Security, che sta facendo molto parlare di sé oltreoceano (“Why China has not caught up yet: military-technological superiority and the limits of imitation, reverse engineering, and cyber espionage”).

Il cinguettio del consiglio, spiega Gilli a Formiche.net, è molto più di un semplice parere. Il casus belli è un memorandum, documento notoriamente vago e privo di specifiche previsioni, che però i cinesi sanno trasformare in uno strumento di grande portata politica. “Inseriscono clausole che richiedono l’accettazione di uno status quo politico, l’integrità territoriale della Repubblica popolare comprendente Taiwan è solo una delle tante”.

Secondo indiscrezioni riportate da Euractiv, il documento nell’occhio del ciclone comprenderebbe propositi di cooperazione fra Cina e Italia in diversi campi, a partire dalle telecomunicazioni. Il sospetto, confermato da alti ufficiali dell’amministrazione Trump a La Stampa, è che si tratti di un via libera ad aziende come Huawei nel mercato italiano nonostante i moniti americani sul pericolo sicurezza che il colosso hi-tech di Shenzen comporta. “L’Italia ha basi Nato e Usa a Napoli, Aviano, Sigonella, se la Cina dovesse avere il controllo sulla rete in Italia le comunicazioni riservate ai Paesi Nato potrebbero essere compromesse”.

Incalzato da Lucio Caracciolo dal palco del festival di Limes, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha confermato la prossima firma del memorandum, senza chiarire tuttavia se avverrà durante il soggiorno romano di Xi o più in là, in occasione della visita di Conte a Pechino. Il timore degli americani è anzitutto quello di uno slittamento geopolitico dell’Italia ad Est, nel bel mezzo di un confronto globale fra Washington e Pechino che inevitabilmente chiama a sé i rispettivi alleati. Uno slittamento che non può rimanere senza conseguenze. “Difficile prevederle, certe alleanze come la Nato o il sistema istituzionale europeo sono fatte per durare – spiega Gilli ­– un’immediata reazione consiste in un calo della fiducia verso l’Italia, che verrebbe percepito come Paese non affidabile”.

Diverse le ripercussioni. L’esclusione dai tavoli negoziali, come avvenne più di dieci anni fa, mutatis mutandis, durante i negoziati del gruppo dei 6 sull’Iran. Poi ci sono questioni più pragmatiche. “La Turchia ha acquistato il sistema antimissili russo sulla scia di quanto fatto dalla Grecia durante la crisi del debito sovrano, e oggi per questo motivo rischia di non poter acquistare gli F-35 dagli americani” dice Gilli. L’Italia ha ben altro peso. È un alleato storico degli americani, e ha un impatto dirimente sulle politiche Ue.

“Per questo la sua adesione alla Bri interessa ai cinesi e preoccupa gli Stati Uniti – dice l’esperto ­– basta guardare a quanto successo con la questione venezuelana: con un veto europeo sulla risoluzione anti-Maduro l’Italia ha bloccato un intero continente”. Ci sono scelte irreversibili in politica estera: “fra un anno o cinque può cambiare il governo e arrivarne uno con un orientamento opposto, ma quando un Paese cambia radicalmente postura internazionale uscendo dai limiti entro cui si deve muovere la diplomazia, si crea una crisi di fiducia con gli alleati che non è facile invertire”.

Alle valutazioni di respiro geopolitico si sommano preoccupazioni molto più concrete. È il caso della cosiddetta “Debt trap diplomacy” cinese condannata dal Dipartimento di Stato Usa, di cui la nuova Via della Seta di Xi costituisce un caso di scuola. Spiega Gilli: “La Bri si basa su un sistema di financing through trade”. Detto in parole semplici, “ti presto i soldi ma sei obbligato a comprare servizi e prodotti cinesi, in caso contrario vai in contro a un sistema di penalizzazioni a lungo termine”. È un rischio che si cela dietro all’acquisizione di infrastrutture critiche italiane come il sistema portuale di Trieste, ambitissimo dal governo di Xi per farne lo sbocco principe della Bri e un degno concorrente di Rotterdam. Nella trappola del debito cade soprattutto chi ha la predisposizione per farlo, ovvero chi già ha sulle spalle un enorme debito sovrano. L’Italia è di questa schiera, e non è un caso che nei continui viaggi Roma-Pechino del governo gialloverde susseguitisi da agosto ad oggi l’eventuale vendita di titoli di Stato sia stata all’ordine del giorno. “Il caso italiano è particolarmente serio ­– ammonisce Gilli ­– l’Italia ha lo spread alle stelle e la necessità di rifinanziare il debito vendendo bot e aprendo le porte agli investimenti esteri, un Paese fortemente indebitato e con crescita limitata è debole, e chi è debole è ricattabile”.

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