A occhio nudo potrebbe sembrare la classica operazione di libero mercato: una banca sana che ne compra una malata. E invece no, quella in atto tra Deutsche Bank e Commerzbank è qualcosa di più. Con ogni probabilità un vero escamotage messo in atto da Berlino per evitare di accollarsi la responsabilità del bail in, il salvataggio bancario a carico di azionisti e obbligazionisti, dunque risparmiatori. Perché caricare la collettività dei disastri di Deutsche Bank, sarebbe troppo. Meglio agire d’astuzia dimenticandosi in fretta e furia delle lezioni impartite ad altri Paesi che di problemi con le banche ne hanno sì, ma non meno dei tedeschi.
Come raccontato più volte da Formiche.net (qui uno degli articoli sul tema), Deutsche Bank, prima banca tedesca, è in crisi da anni al punto di non stare ormai più sulle sue gambe. Mezzo miliardo di perdita nel 2017, bilanci gonfi di derivati e un passivo di 1,6 miliardi iscritto a bilancio solo per l’aver investito nei municipal bond americani. Impossibile non intervenire. Ma come. Il governo Merkel ha da tempo messo in cantiere una soluzione industriale, almeno a prima vista: la fusione con il secondo istituto teutonico, decisamente più in salute di Deutsche Bank: Commerzbank.
L’idea sarebbe quella di fondere i due istituti in un unico conglomerato bancario, seguendo due strade. O scaricare le perdite della banca di Francoforte su Commerzbank oppure scorporare le attività malate in una bad bank e far confluire la parte sana nella banca di Amburgo. Non è ancora chiaro, quello che conta agli occhi della Merkel è che a pagare il conto non siano milioni di risparmiatori tedeschi, che altrimenti finirebbero nel frullatore del bail in. Al massimo 30 mila lavoratori in esubero previsti dalla fusione, ma questa è un’altra storia.
Tutto bene, anzi no. Perché ci sono almeno un paio di cose che non tornano nell’operazione appena confermata (questa mattina) dal ministro delle Finanze tedesco, Olaf Sholz. Primo, il governo tedesco è primo azionista unico di Commerzbank con una quota del 15% (qui la “torta” con la ripartizione dell quote). Dunque in caso di fusione, la Repubblica federale tedesca sarebbe socio di riferimento della maggiore banca tedesca (non è prevista una diluizione del capitale pubblico), certamente tra le prime cinque in Europa. A conti fatti, il grosso del sistema bancario tedesco risulterebbe così nazionalizzato da Berlino.
Un po’ di memoria storica aiuta: dal 2008 al 2017 il governo tedesco ha speso la bellezza di 227 miliardi tra salvataggi e ricapitalizzazioni (Commerzbak inclusa, alla quale sono riconducibili 14,6 miliardi di aiuti, tradottisi nella quota del 15% in mano a Berlino). Lo Stato italiano, tanto per fare un raffronto, ne ha spesi 5,4 per Mps, su Carige non ha messo ancora un euro mentre sia sulle popolari venete sia sulle quattro casse fallite a fine 2016 è scattato il meccanismo del burden sharing previsto dalla normativa Ue. Il governo Merkel invece, solo un mese fa, ricapitalizzata con soldi pubblici NordLandsbank, istituto cooperativo finito a corto di ossigeno e ora interamente controllato dallo Stato. Insomma, parlare di nazionalizzazioni bancarie in Italia rimane un tabù, mentre la Germania dell’ortodossia europea si appresta a diventare primo socio di un gigante del credito.
Non è tutto. L’operazione architettata da Berlino, la fusione Db-Commerzbank, ha come detto l’evidente scopo di aggirare il bail in. Quello stesso meccanismo tanto temuto che a sentire il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, sarebbe stato accettato dal suo predecessore Fabrizio Saccomanni (governo Letta) solo per il ricatto che gli fu posto dal collega tedesco Wolfgang Schaeuble (ex ministro delle Finanze), il quale avrebbe paventato il rischio che, non accettando il bail in, si diffondesse la notizia che l’Italia non avrebbe avallato la nuova normativa per paura sulle condizioni di salute delle sue banche. Anche la Germania ha i suoi scheletri nell’armadio.