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Donne e sicurezza, perché il binomio funziona

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Non solo mimose. Celebrare la donna significa anche e soprattutto riconoscere il suo apporto alla società civile, abbandonando vecchi e stantii cliché. Come quello che vede nel binomio donne e sicurezza un ossimoro. Qualcosa di più di un cliché, a dirla tutta. I numeri parlano: anche nei Paesi più avanzati, la percentuale di quote rosa presenti nelle forze armate e nel campo della sicurezza raggiunge faticosamente la doppia cifra. Un triste dato dovuto a tanti fattori contingenti, ma non certo a ragioni di efficienza, se è vero, come certificano i rapporti dell’Onu e in particolare il Global study preventing conflict, trasforming justice, securing the peace commissionato dal Segretario generale nel 2015, che le donne sono il fattore chiave nei processi di prevenzione dei conflitti e peace-keeping. Il 31 ottobre del 2000, dal palazzo di vetro di New York, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvava all’unanimità una risoluzione, la 1325, che avrebbe rimesso al centro del dibattito internazionale il ruolo della donna come protagonista assoluta delle operazioni di pace e prima vittima dei conflitti armati. A diciannove anni da quel primo passo, in una gremita Sala della Regina, la Camera dei Deputati ha ricordato i (modesti) progressi fatti con il convegno “Donne, pace e sicurezza”.

A presiedere i lavori la presidente della Commissione Esteri della Camera in quota M5S Marta Grande e l’ambasciatrice del Canada in Italia Alexandra Bugailiskis. Al loro fianco Staffan De Mistura, già inviato speciale dell’Onu in Siria e dunque testimone privilegiato degli orrori del conflitto siriano, soprattutto su donne e bambini. Ospite d’onore Lamya Haje Bashar, la donna yazida che è sopravvissuta a venti mesi di atroce prigionia nelle mani dell’Isis in Iraq e che oggi ha trovato la forza per trasformare il dolore in testimonianza e attivismo. È suo l’intervento più toccante, che tiene col fiato sospeso per dieci minuti una sala gremita di studenti e volti noti e trasversali della politica italiana, dalla forzista Deborah Bergamini ai grillini Lorenzo Fioramonti e Simona Suriano e la dem Lia Quartapelle.

“Ci sono ancora più di 3000 donne yazide prigioniere dell’Isis. Tutti ci dicono che Daesh è stato sconfitto. Dove sono, allora, quelle donne?”. L’incipit è un’accusa diretta a chi, come il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha già calato il sipario sui tagliagole. Lamya non vuole fare politica. Vincitrice del premio Sakharov per la libertà di pensiero, gira il mondo per spiegare che in guerra le donne pagano il prezzo più salato. Le donne yazide ancora di più. Il volto porta ancora i segni dell’orrore. Durante la fuga dagli aguzzini una mina glielo ha sfigurato. Un aereo iracheno l’ha portata in Germania, dove ha potuto curare le ferite, quelle fisiche. “Abbiamo visto cose terribili, ci hanno torturate, stuprate, molte si sono suicidate, hanno messo su donne e bambini un prezzo e ci hanno venduto come bestie”. Parole che dovrebbero risvegliare la coscienza (o meglio, il torpore e l’indifferenza) di un’Europa che ora dovrà fare i conti in casa. Lo ha detto Trump, senza mezzi termini: in Iraq e Siria ci sono almeno 800 foreign fighters da sistemare. Donne e uomini che hanno abbandonato le capitali europee per darsi al jihad e macchiarsi di odiosi crimini. Lamya ricorda tutti i volti, e non ha paura di parlare fuori dal politically correct. “C’è un gran dibattito sulle donne che hanno seguito l’Isis. Sono stata tre giorni schiava di una donna tedesca, ed è stata una torturatrice peggiore degli uomini di Daesh”. La vendetta crea solo altro odio, e non cancella il passato, dice la yazida impassibile. “Se rispondiamo con l’ideologia commetteranno crimini peggiori. Ora è il momento della giustizia, che purtroppo non funziona. È nostra responsabilità processarli, troppi di quelli che hanno massacrato e torturato in Iraq ora sono a piede libero”.

La donna è vittima privilegiata della violenza, ma anche protagonista di pace. È giusto raccontare anche questa faccia della medaglia, e denunciare discriminazioni e ritardi ingiustificabili. “Le donne sono determinanti nella risoluzione delle crisi internazionali – dice in apertura il presidente della Camera Roberto Fico – dobbiamo sostenere la loro presenza nel peace-keeping”. “I conflitti hanno un impatto più atroce sulle donne, il caso dei migranti in Libia è sotto i nostri occhi – aggiunge il leader pentastellato con una frecciatina (l’ennesima) alla linea leghista – dobbiamo sostenere ong e attivisti”.

La responsabilità è anzitutto in capo ai Paesi sviluppati e democratici, spiega Marta Grande, che ricorda con orgoglio di essere la prima donna in settant’anni di vita repubblicana a presiedere la Commissione Esteri. I numeri italiani non sono incoraggianti. “L’Italia è stato l’ultimo paese ad adeguarsi a un sistema di reclutamento misto nella Nato e la percentuale delle donne italiane nelle forze armate è inferiore al dato medio della Nato”. C’è però qualche segnale nella giusta direzione. Grande difende una legge, la 145 del 2016, che contiene specifiche previsioni per la partecipazione delle donne alle missioni internazionali”. “È un importante passo avanti” riconosce la pentastellata con sportività, perché quel provvedimento fu approvato dal governo Renzi. Certi temi possono e devono restare fuori dalla contesa politica.

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