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Finanziamenti al jihad e rischio radicalizzati. Fotografia del terrorismo nella ricerca Icsa

terrorismo, Manciulli, Cia

Il terrorismo è un fenomeno complesso, dalle guerre in Siria, Iraq o Afghanistan alle cellule dormienti in Occidente, dai finanziamenti ottenuti con il contrabbando alle poche centinaia di euro che bastano per un attentato. Allo stesso tempo, il ritorno dei foreign fighter o una vera politica di deradicalizzazione sono questioni difficili di affrontare. Su quest’ultimo tema prima dell’estate si terrà in Italia una conferenza internazionale. C’è anche tutto questo nel volume “Terrorismo, criminalità e contrabbando. Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa” (482 pagine, Rubbettino) curato da Carlo De Stefano, Elettra Santoni e Italo Saverio Trento per la Fondazione Icsa. La presentazione ha offerto un riassunto anche dei metodi di prevenzione e repressione, nei quali l’Italia raggiunge risultati eccellenti, mettendo a fuoco in particolare i collegamenti con la criminalità e i flussi di finanziamento, lettura che però non dev’essere fuorviante perché dalle indagini non emergono alleanze strutturate della criminalità organizzata con i jihadisti e perché il rischio di un attentato arriva anche dal singolo radicalizzato che non beneficia di finanziamenti.

Di terrorismo “ibrido” ha parlato il prefetto Carlo De Stefano, vicepresidente della Fondazione e già capo dell’antiterrorismo, con riferimento ai traffici di petrolio e di beni archeologici, rilevando che dall’esame di 485 profili di jihadisti redatti dall’Interpol emerge che i due terzi hanno precedenti penali e che si sta alzando nettamente l’età media: dai giovanissimi del dopo 11 settembre ai quarantenni di oggi. Il sistema-Italia comunque funziona ed è apprezzato a livello internazionale, soprattutto grazie al Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo. Il generale Teo Luzi, capo di Stato maggiore dei Carabinieri, ha detto senza ipocrisie che le 7-8 ore che paralizzarono la Francia, oggetto di attentati multipli nel novembre 2015, in Italia non si sarebbero verificate per la capacità di analisi e perché, prima dell’eventuale uso delle forze speciali, abbiamo unità come le Uopi (Unità operative di Pronto intervento) della Polizia e le Api (Aliquote di pronto intervento) dell’Arma addestrate per “ingaggiare” immediatamente i terroristi.

Il bacino dei “radicalizzati in casa” è sempre più ampio, anche grazie all’uso del web: lo dice la recente relazione dei Servizi segreti al Parlamento e l’ha ribadito il prefetto Gennaro Vecchione, direttore del Dis, annunciando una conferenza internazionale sui radicalizzati e sui processi di deradicalizzazione che si terrà prima dell’estate con la partecipazione delle nazioni europee e del Mediterraneo. Bloccare i finanziamenti significa “inceppare la macchina jihadista”, ha aggiunto Vecchione confermando che le principali fonti di finanziamento sono gruppi privati e associazioni caritatevoli. Sigarette e petrolio, però, non scherzano e i dati del generale Giuseppe Arbore, comandante del III Reparto “Operazioni” della Guardia di Finanza, lo spiegano: nel 2013 le Fiamme gialle sequestrarono 120 tonnellate di sigarette, l’anno scorso 280 tonnellate in buona parte “illicit white”, cioè prodotte al di fuori dell’Unione europea e destinate al mercato illecito dell’Ue. Anche il petrolio di contrabbando arriva in Italia da canali clandestini e consente di vendere il carburante in tante stazioni a prezzi bassissimi. Non va dimenticato che il Mediterraneo allargato ha tra il 65 e il 70 per cento delle risorse energetiche del mondo e, pur rappresentando circa l’1 per cento dei mari, nel Mediterraneo naviga il 20 per cento della flotta globale. Invece, sul fronte della lotta ai finanziamenti al riciclaggio, Arbore ha rivendicato un ruolo di avanguardia per l’Italia che applica le stesse norme del riciclaggio: l’anno scorso ci sono state 1.280 segnalazioni con profili di rischio di finanziamento al terrorismo da parte dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia che hanno portato a 350 investigazioni un’ottantina delle quali finite in inchieste.

Nella mole di dati contenuta nel volume spiccano due elementi: i foreign fighter italiani e i detenuti monitorati nelle carceri. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, intervistato per il libro come i vertici delle forze dell’ordine e vari esperti, ha detto che sui 135 foreign fighters collegati con l’Italia (dati al 1° agosto, oggi sono 138) 48 sono morti in guerra e 12 sono rientrati in Italia dei quali 5 sono in carcere e 7 monitorati dalle forze dell’ordine. In base alla relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per il 2018, invece, sono 506 i detenuti nel mirino su 12.775 di fede musulmana: 242 sono al primo livello, i più pericolosi, tra cui 62 in carcere per reati di terrorismo internazionale; 114 sono al secondo livello, coloro che hanno avuto atteggiamenti di vicinanza al jihadismo o hanno svolto attività di proselitismo; 150 al terzo livello, i detenuti i cui comportamenti vanno approfonditi.

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