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Cosa succede a Gaza e quali conseguenze in Israele?

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La campagna elettorale israeliana si fa sempre più ostile. Il telefonino del generale Gantz è stato craccato. Prima del fine settimana, il Likud rilascia un video in cui si sostiene che l’Iran stia sostenendo Gantz, che risponde assieme agli altri generali “non sarai di certo tu ad insegnarmi cosa significa esser forti”.

Il clima politico astioso ha un nuovo focus: l’Iran. Netanyahu sta perdendo consensi dopo l’alleanza con l’estrema destra e deve riportare l’attenzione sui suoi successi, come le operazioni sul nucleare iraniano.

A questo si aggiunge il problema di Gaza. Giovedì sera due missili sono stati lanciati verso Tel Aviv, e l’esercito israeliano ha colpito nella notte una serie di obiettivi militari di Hamas. Apparentemente però i responsabili sono i militanti di Jihad Islamico, che da qualche settimana ha intensificato anche i lanci verso Israele di esplosivi legati a palloncini.

Da un mese circa la tensione a Gaza è in aumento e Hamas ha sempre usato le manifestazioni settimanali al confine con Israele come valvola di sfogo di una popolazione allo stremo: 8 ore di elettricità al giorno (dopo i recenti miglioramenti), 51.2% di disoccupazione e 70% tra i giovani. L’Iran aveva l’anno scorso pagato le famiglie che avessero contato feriti nelle proteste.

La speranza della popolazione di Gaza era il Qatar, che trasferisce 15 milioni di dollari in contanti ogni mese per alleviare le sofferenze della popolazione e pagare i dipendenti senza stipendio. Ma la situazione non è migliorata, anzi. La cattiva gestione delle donazioni e l’improvviso afflusso di denaro hanno aumentato il costo della vita scatenando una serie di proteste per le strade di Gaza.

Nei tre giorni passati Hamas è stato capace di tenere più o meno sotto controllo la rabbia della popolazione, reprimendo le manifestazioni e incarcerando giornalisti. Ma le manifestazioni sono continuate e ieri pare che Ahmed Abu Tahn si sia dato fuoco nelle proteste. Una signora ripresa da un telefonino dà voce alla disperazione: “I loro figli [cioè dei militanti di Hamas] hanno lavoro, macchine, case e mogli, e cosa rimane ai nostri figli?”.

Su Twitter circolano video in cui si vedono militanti di Hamas sparare sulla folla di manifestanti in diverse parti della Striscia. In altri video si vedono case distrutte dalla polizia di Hamas che va ad arrestare manifestanti e giornalisti (come Osama Kahlut).

Ma contro chi protestano o gazawi? Una serie di articoli pubblicati su siti più o meno vicini a Hamas (per diverse ragioni, compresa l’ideologia anti-israeliana che pur laica preferisce Hamas all’Autorità Palestinese, considerata collaborazionista dello Stato ebraico), le proteste sono state definite “la rivoluzione degli affamati”, e riportano immagini e descrizioni di proteste contro Abu Mazen.

Farah, rivale di Hamas, non perde l’occasione per denigrare l’avversario: in un messaggio di Hussein al-Sheikh del comitato esecutivo di Farah, che twittava un video in cui si mostra la violenza dei miliziani di Hamas sui manifestanti, si legge: “Queste non sono le forze di occupazione israeliane!! Sono le bande di Hamas”. In altra stampa vicina all’Autorità Palestinese Hamas è definito oppressore con un linguaggio simile a quello utilizzato normalmente contro Israele.

La politica di Abu Mazen di boicottaggio di Hamas e pressione economica su Gaza sta dando i propri frutti: la popolazione si sta rivoltando contro il regime del movimento islamico. Ma si sa che le proteste e le rivolte sono imprevedibili. Per questo Ramallah ha chiesto all’Egitto e al Qatar di intervenire per controllare gli sviluppi di quello che in molti credono essere un inizio di rivoluzione. Ramallah spera che l’Egitto intervenga nel senso di garantire un futuro controllo dell’Anp su Gaza, mentre il Qatar dovrebbe negoziare con Hamas.

Israele si guarda bene dall’intervenire sulle questioni interne: dopo la serie di bombardamenti su obiettivi militari di Hamas, entrambi hanno chiarito che non vogliono una guerra, ma la tensione a Gaza influisce sulle elezioni. Netanyahu sembra non avere una chiara politica su Gaza, che lascia l’elettorato incerto e più propenso a votare i Gantz. D’altra parte però i generali di Gantz non parlano di una politica o strategia su Gaza o sulla sicurezza del sud, perché troppo impegnati a rispondere agli aggressivi attacchi di Netanyahu.

L’America farà di tutto perché Gaza rientri sotto il controllo di Ramallah, che continua però a boicottare la dirigenza di Trump. A questa soluzione pare esser propenso anche l’Egitto, che vuole confini tranquilli con un partner con cui dialogare (cioè Farah), non imprevedibile e non impegnato a scavare tunnel verso il Sinai.

Le domande sono molte. Anzitutto riguardano proprio il futuro di Gaza: se dovesse cadere il regime di Hamas cosa succederà alla Striscia? Chi salirà al potere e chi garantirà che il territorio non diventi un campo di battaglia tra diverse fazioni militanti? E poi il vicino Israele: come influenzerà le elezioni la rivolta di Gaza? A chi credere? Le Ong di Gaza si guardano bene dal criticare Hamas e stranamente non hanno dati su feriti o morti, mentre le Ong della West Bank si associano alla propaganda di Ramallah.

Il 30 marzo i palestinesi celebrano il Giorno della Terra, con manifestazioni anti-israeliane. Cosa succederà allora è da vedere, perché la tecnica di Hamas di lasciar sfogo alla popolazione pare non funzionare più.


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