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Golden power tardiva, l’accordo con Pechino è un rischio che il governo sottovaluta. Parla Sapelli

Giulio Sapelli

Giulio Sapelli, economista, storico e accademico valuta positivamente la scelta del governo di rinforzare la Golden power. Una misura che, probabilmente, andava presa però molto prima e non a ridosso della firma del memorandum of understanding con Pechino. “Un Paese del G7 che firma un’intesa che porta la Cina, rivale strategico di Washington, nel cuore dell’Europa, non può essere solo questione di business”, spiega il professore in una conversazione con Formiche.net.

Professore, il Consiglio dei ministri si appresterebbe a varare un ampliamento della Golden power “anche agli acquisti da parte di imprese, pubbliche o private, aventi ad oggetto beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione ed alla gestione delle reti di comunicazione elettronica basate sulla tecnologia 5G, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea”. In pratica un modo per frenare nel settore la presenza di colossi cinesi come Huawei che preoccupa molto i nostri alleati. Come valuta la misura?

Aspettando di conoscerne i dettagli, il senso del provvedimento – che in fondo ricalca un disegno europeo più generale – non può che essere valutato positivamente, perché i veri rischi per la sicurezza in ambito telco si nascondono proprio nell’implementazione delle nuove reti superveloci di quinta generazione. Detto ciò probabilmente questa misura, così come altre, andava presa prima.

Che cosa glielo fa pensare?

Molti asset strategici sono già usciti fuori dal nostro controllo o hanno visto comunque l’ingresso di Paesi come la Cina. Mi riferisco in particolare alla presenza di Pechino in Cdp Reti. Questo dimostra che il tema del rapporto con la Repubblica Popolare non è solo relativo a questo governo, ma ha radici antiche. Se siamo arrivate alla situazione di oggi è perché c’è stata una lunga serie d’errori, italiani e non solo.

Quali errori sono stati commessi nel rapporto con la Cina?

In primo luogo c’è stato un totale disimpegno europeo. Bruxelles in questi anni ci ha sempre ripetuto che bisognava restare uniti per consentire all’Europa di competere in un mondo globalizzato. Poi, però, è arrivata in fortissimo ritardo ad affrontare un argomento così delicato come la penetrazione di attori esterni condotta anche attraverso investimenti mirati e strategici. L’Italia, dal canto suo, non ha tenuto conto negli anni di come alcune questioni non possano essere considerate solo economiche, ma abbiano una fortissima valenza politica e geopolitica.

Si riferisce alla Via della Seta?

Anche. Un Paese del G7 che firma un’intesa che porta la Cina – rivale strategico di Washington – nel cuore dell’Europa, non può essere solo questione di business. La Cina non ambisce a essere solo una potenza economica, ma si sta allargando anche militarmente, come dimostra la base in Gibuti. Se a questo ci aggiungiamo che finora la Belt and Road initiative si è rivelata un fallimento anche dal punto di vista commerciale allora è facile tracciare di questa operazione un bilancio completamente negativo, che ci espone anche a forti rischi collaterali.

Che rischi intravede nell’adesione alla Bri?

Innanzitutto rischi di natura economica. Senza voler dare una lettura ideologica, è un fatto che molti Paesi, africani e non solo, si stanno tirando fuori – o stanno pensando di farlo – da questo progetto, perché vittime di un “imperialismo da debito”, la cosiddetta Debt Trap, che li vede prima indebitarsi per realizzare costose infrastrutture e poi cederle a prezzo di saldo a Pechino per rimettere i conti in sesto. C’è poi il pericolo di alimentare ulteriori divisioni europee: in un momento così delicato questa intesa – che andava prima discussa con i partner europei per avere una linea comune – rischia di mettere oltremodo in competizione i porti del Sud Europa con quelli del Nord.
Infine c’è un rischio geopolitico enorme, derivante da una sottovalutazione dei moniti statunitensi e da una miopia generale dell’interesse nazionale.

Come definire l’interesse nazionale italiano su questo dossier?

Noi potremo essere una forza di mediazione solo in accordo con gli Usa. L’atlantismo ci ha sempre dato e ci darà la libertà di essere spregiudicati diplomaticamente. Se rompiamo con Washington questa possibilità sarà molto difficile, se non impossibile, da avere.



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