Da un lato i tecnicismi di un accordo con la Cina che appare ancora poco chiaro e la cui efficacia è tutta da valutare, dall’altro l’evidenza di un significato politico che comunque un’intesa con Pechino comporterebbe e che una parte del governo – soprattutto quella leghista – cerca di depotenziare per non irritare ulteriormente Washington. Memorandum, golden power, infrastrutture critiche, porti e telecomunicazioni sono le parole-chiave di questa vicenda ancora lontana dal trovare un punto di svolta.
IL MEMORANDUM
Quello che l’esecutivo giallo-verde si appresta a firmare sarà un Memorandum: né più né meno che una dichiarazione d’intenti. Un “Memorandum of understanding” persino meno stringente di quello firmato due anni fa dal governo Gentiloni con il presidente libico Serraj e che prevedeva almeno delle clausole chiare: l’invio di motovedette in Libia con l’impegno da parte di Tripoli di controllare gli sbarchi. In questo caso – quello tra Cina e Italia – sembra più un tentativo di mettere per iscritto la volontà di aprire un dialogo che circostanziare dei campi di azione in maniera concreta. Una cautela, ma forse anche un rischio, tanto più se all’interno del testo sono state inserite parole-chiave come “Telecomunicazioni” e che inevitabilmente fanno pensare ad un’apertura sul discusso 5G da affidare alle aziende cinesi. Tra l’altro il testo anticipato in queste ore dell’accordo tra Roma e Pechino presenterebbe sul piano pratico più di qualche difficoltà, in alcuni casi prevedendo degli intenti che sarebbe persino impossibile portare avanti concretamente, soprattutto da parte dell’Italia, senza mettere in pericolo alcuni settori strategici.
Ha lasciato più di qualche dubbio l’evidenza che nella bozza di accordo tra Italia e Cina fosse stato inserito (foto) il settore delle “Telecomunicazioni”, con tutte le conseguenze che ciò porterebbe sul fronte della rete 5G. Non da meno è altrettanto complesso immaginare accordi estremamente vincolanti sui porti, su quella che è stata definita la nuova “Via della Seta”, che vedrebbe Trieste come sbocco finale del progetto della Belt and Road Initiative formulata da Pechino.
Se si è evocata – giustamente – la clausola della Golden Power per il 5G e il settore delle Tlc, allo stesso modo il Dpr 85 del 2014 (foto) che regolamenta i casi specifici da salvaguardare per tenere in mani italiane le infrastrutture critiche del Paese, indica esplicitamente che anche i porti rientrano in questa fattispecie. Se ferrea è stata l’opposizione di Salvini a qualsiasi accordo sul 5G, altrettanto sarà sul fronte dei porti? Insomma, anche firmando il Memorandum con la Cina, bisognerà poi di volta in volta verificare se concretamente, in ogni ambito delle intese sottoscritte, si potrà procedere senza intaccare i nostri interessi nazionali. Punti su punti che andranno poi declinati in base a quelle che sono le differenti sensibilità nel campo della maggioranza, con la Lega che vuole maggiore chiarezza e il Movimento 5 Stelle che ha intenzione di portare comunque a casa un risultato frutto della visita di Di Maio a Pechino dei mesi scorsi.
I RAPPORTI DI FORZA
Non un’impresa semplice assicurare a Pechino di entrare con le proprie aziende nei nostri porti e al contempo salvaguardare i nostri asset strategici. Basti pensare che la China Ocean Shipping Company (COSCO), la società di logistica più importante Made in China, altro non è che una compagnia di Stato. Proprio come tante altre, ad esempio la Zte sul fronte delle telecomunicazioni. Un’economia – quella cinese – che non è di mercato. Fare accordi con imprese cinesi equivale farne con il governo di Pechino che riesce a controllarle direttamente. Tra i punti complessi c’è quindi quello di conciliare le leggi italiane ed europee delle nostre economie di mercato con quelle stataliste cinesi.
GLI USA
Senza una chiara volontà del governo resta quindi difficile rendere concreti ed efficaci i punti d’intesa inseriti nel Memorandum. Sul piano pratico, specie in alcuni settori, sarebbe complesso firmare intese senza mettere a rischio gli asset strategici e i nostri interessi nazionali. Il punto è che in forza di accordi scritti sulla sabbia, si offre un segnale politico a Washington che Roma voglia fare da apripista per lo sbocco in Europa degli interessi del Dragone. Un discrimine molto chiaro sia a Pechino che a Washington, ma forse non abbastanza evidente al governo giallo-verde che cerca continuamente di tranquillizzare gli alleati Oltreoceano, ma senza riuscirci. Non è un caso se ultimamente sono arrivati diversi warning da parte degli Usa che con il Segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno persino minacciato di non condividere più con gli alleati informazioni di intelligence.