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Il governo, la Cina e il deficit di diplomazia. L’analisi di Enzo Scotti

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Come avviene spesso, nei tempi della seconda Repubblica, il confronto su scelte strategiche di politica estera danno vita a contrapposizioni che rispondono più a logiche di politica interna che non certamente al merito delle scelte che il Paese è chiamato ad affrontare.

In queste settimane il nostro Paese, e non solo i decisori politici ma maggioranza e opposizione compresa e anche molti consiglieri del Principe, appare sempre più vittima di questa trappola facendo perdere l’importanza del merito della scelta e della necessità di una corretta condotta diplomatica indispensabile per la portata della scelta.

Stiamo parlando della firma di un documento italocinese, di cui tra l’altro si rivendica con forza il contenuto non vincolante, da parte del Presidente della Repubblica – capo del Partito Comunista Cinese e del presidente del Consiglio Italiano. È una questione, si sottolinea, che chiama in causa da una parte l’Unione europea che, tra l’altro, per il Trattato, ha la delega alla negoziazione degli accordi commerciali tra l’Unione e i Paesi terzi e, dall’altra, coinvolge, e non in modo marginale, gli Stati Uniti a cui siamo legati da un complesso rapporto che va ben oltre le questioni economiche e commerciali.

A rendere difficile il dipanare la matassa, ci sono due dati che, nonostante la scarsa informazione, vengono percepiti come contradittori rispetto ai moniti rivolti al nostro governo. Innanzitutto, la crescita della potenza tecnologica, economica e politica della Cina che non dovrebbe essere per l’Europa un fatto di queste settimane: l’espansione del suo commercio, a parte gli stracci, ma soprattutto dei suoi investimenti diretti in Africa e nella stessa Europa, è un processo che dura da molti anni. Secondo, la necessità per l’Europa di una strategia di lungo periodo, adeguata anche a due mutamenti in qualche modo più recenti. Il primo è un dato di fatto non più cancellabile. La Cina non è lontana da noi perché in Africa non solo è proprietaria dello sfruttamento di vitali materie prime ma continua ad incrementare il numero di cittadini cinesi; in un continente cui l’Europa è legata in modo determinante per il suo futuro. Il secondo è costituito dal crescente controllo cinese della logistica nel Mediterraneo a seguito anche del raddoppio del canale di Suez che è ormai lo sbocco marittimo della via della seta.

Ma vogliamo domandarci quale è stata la reazione dell’Europa mentre la Cina dava vita a queste sfide? L’Europa considerava i Paesi dell’est la sua nuova frontiera strategica e il Mediterraneo una questione da lasciare al “mercato” e alla retorica dei Paesi che si affacciano su quel mare. I singoli Paesi, in forte concorrenza tra loro, puntavano ad accrescere le loro esportazioni e ad assicurarsi investimenti cinesi sul loro territorio. Alcuni statisti europei avevano intravisto il pericolo e avevano cominciato a capire la strategia cinese e intuito una possibile risposta che non ignorava di trovarsi di fronte a un Paese di oltre un miliardo e mezzo di persone. Gli americani, stimolati dal realismo di Kissinger, avevano intravisto – dopo la guerra in Corea e in Vietnam – la necessità di un nuovo rapporto e dialogo politico con la Cina che era di fronte alla sfida della sua crescita dopo aver portato a termine la sua lunga marcia. Il cammino non era facile né breve ma, alla fine, gli Stati Uniti avrebbero dovuto prendere atto della potenza cinese.

Con la caduta del muro di Berlino, la leadership statunitense ha mostrato non poche incertezze nel dominare le sfide dei grandi cambiamenti globali e in particolare la questione cinese. E con gli europei hanno mostrato di non comprendere cosa stava succedendo in Cina alla luce del suo essere stata, del suo “comunismo” e del suo rifiuto di accettare modelli politici estranei alla sua cultura e tradizione. Nel 1989 nei giorni dopo la rivolta l’allora segretario del Partito Comunista, in un lungo incontro, mi disse che non avrebbe mai compiuto gli errori di Gorbaciov, che aveva incontrato solo pochi giorni prima. Più difficile la comprensione dopo 2013 con l’arrivo del nuovo presidente Xi Jinping.

Trump, arrivato alla presidenza con lo slogan “America first” cerca di fronteggiare da solo e nel solo interesse americano il rapporto con la Cina attraverso la guerra e la possibile pace dei dazi e del commercio. Trump non ha tentato di coinvolgere gli europei con una strategia di lungo periodo. Oggi sa bene che il tempo incalza sul versante della guerra digitale e fronteggiarla senza gli europei lo indebolisce. Di qui ha alzato la pressione e, in particolare, con l’Italia in questi giorni.

Certamente il governo italiano è in difficoltà anche nel dialogare con Xi, con sufficiente credibilità, sia per le diverse posizioni assunte da Salvini e da Di Maio ma, soprattutto, per come, dalle notizie disponibili, ha portato avanti la relazione politica e il negoziato per la firma del documento con la Cina, senza accompagnarlo con una serrata chiara iniziativa diplomatica in Europa e in Usa. Non è sufficiente semplicemente minimizzare considerati i nostri legami con questi Paesi, quando si passa dal discutere di “business” e si entra nei temi della sicurezza, e in particolare della sicurezza informatica, problema assai scottante sia per gli Stati Uniti che per l’Unione Europea.

Ciò nonostante e con grande realismo, per l’Italia e per l’Europa l’obiettivo di un dialogo e di una cooperazione con la Cina deve restare obiettivo da perseguire se guardiamo allo sviluppo dell’area Mediterranea e se teniamo presente che non possiamo affidarci alla opzione di uno scontro, come qualcuno pensa fatale. Questo è il tema che il governo dovrebbe mettere in risalto in modo chiaro e favorendo innanzitutto una intesa Europa-Stati Uniti sui temi della sicurezza digitale a base del rapporto con la Cina e così rassicurando gli alleati sugli obiettivi e i contenuti della dichiarazione da firmare a Roma. E al tempo stesso, offrendo una realistica assicurazione alla Cina sull’impegno italiano ed europeo per l’approdo marittimo nel Mediterraneo della Via della Seta. E non dimentichiamo che il progetto Mediterraneo-Africa nel contesto della cooperazione rende credibile anche l’azione italiana per un realistico risanamento della sua finanza perché dà corpo ad una strategia di sviluppo cogliendo l’occasione di un realistico volume di investimenti nel Mediterraneo e in Africa.

E con i piedi per terra occorre non dimenticare che dovremo camminare lungo un percorso molto stretto e difficile di rapporto tra Cina e Stati Uniti che richiede una iniziativa europea non equivoca, non frammentata nei tanti piccoli interessi nazionali e soprattutto capace di mettere in gioco la lungimiranza di uomini come Matteo Ricci rievocata solo in occasioni di mostre culturali.

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