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Evitare l’Iva a tutti i costi. Perché il Tesoro spinge sulla vendita del patrimonio

L’accordo con l’Europa non è stato gratis. Sì a una manovra in grado di spingere il deficit italiano al 2%, ma a una serie di condizioni. Due di queste riguardano la cessione di patrimonio pubblico, sotto forma di partecipazioni in aziende strategiche ma anche di mattone. Dalla prima operazione il governo (e soprattutto Bruxelles) si aspetta incassi per 18 miliardi di euro, soldi con cui bilanciare, o tentare di farlo, lo sforamento del disavanzo, cardine della finanziaria gialloverde. Molto più esigua la cifra prevista dalla seconda, 1,2 miliardi spalmati su tre anni, di cui il grosso, circa 950 milioni, già da quest’anno. Problema, la dismissione di nuovi stock di quote pubbliche nelle grandi partecipate non è ancora partita, dunque il governo ha per il momento deciso di ripiegare sul secondo.

La partita non è facile, perché di operazioni per la vendita di patrimonio, se ne sono allestite molte in passato, e non tutte hanno dato esito fruttuoso. Il punto non è tanto individuare gli immobili da piazzare sul mercato, quanto portarne a termine la vendita. Premesso che allo Stato, nel complesso, fanno capo beni per 1.800 miliardi tra immobili, partecipazioni e opere d’arte, 500 milioni in meno del nostro debito pubblico, il Tesoro ha finalmente deciso di schiacciare il piede sull’acceleratore su un insieme di cespiti individuati sui 58 mila beni censiti. A buona ragione, dal momento che non incassare nemmeno la prima tranche da 950 milioni vorrebbe dire aprire la strada all’aumento dell’Iva. Non bisogna mai dimenticare che sull’Italia incombe una tagliola da 23 miliardi solo per il 2019, e considerato che quest’anno il Paese non farà Pil, qualche parte i soldi devono entrare, clausole Iva o cessione di patrimonio poco importa.

Il dicastero guidato da Giovanni Tria proprio in questi giorni ha avviato un beauty contest (letteralmente, concorso di bellezza) tra diversi studi legali, al fine di selezionare un pool scelto di advisor, in grado di farsi carico dei cespiti individuati. L’obiettivo è quello di mettere sul mercato il prima possibile, almeno la metà dei beni censiti. Tra questi, come ricorda oggi il Sole 24 Ore, ex aree industriali, caserme e ospedali dismessi. In aggiunta agli 1,2 miliardi preventivati, ci sono altri due miliardi scarsi già programmati nelle precedenti manovre. Dunque, a conti fatti, nei prossimi tre anni lo Stato punta a liberarsi di circa 3 miliardi di mattone pubblico.

Ora la domanda è: come gestire tutto questo? Serve un veicolo che sia in grado di reggere e soprattutto gestire, l’intera mole di beni da piazzare sul mercato. Anche perché ci sarebbe da strutturare un meccanismo di vendita che possa fare a meno delle aste, che spesso vanno a vuoto oppure finiscono al massimo ribasso. L’idea del Tesoro per la dismissione di patrimonio pubblico, sarebbe creare una serie di fondi immobiliari magari da far gestire alla stessa Cassa Depositi e Prestiti. E perché no, magari anche a quella stessa Invimit, la sgr del Mef concepita proprio per operazioni di questa natura.

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