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Trump, Israele, la Cina e l’ambiguità democratica

I due principali contender della corsa elettorale israeliana, il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu e il suo rivale, l’ex generale capo dello Stato maggiore Benny Gantz (un’icona militare in un paese dove il militarismo è genetico), sono entrambi negli Stati Uniti per partecipare alla riunione annuale dell’Aipac. L’American Israele Public Affairs Committee è l’organizzazione socio-culturale e soprattutto lobbistica che promuove le relazioni tra Washington e Gerusalemme, che ha una forza tale da coinvolgere negli interventi a corredo della manifestazione il gotha della politica e del business world (ma anche della cultura) americani.

Quest’anno il presidente Donald Trump ha lanciato un doppio chiaro messaggio agli israeliani anticipando l’evento. Giovedì scorso ha sparato uno di quei tweet distruptive che hanno fatto venir giù anni di politica diplomatica, annunciando che è giunta l’ora “che gli Stati Uniti riconoscano la piena sovranità di Israele sulle alture del Golan”. È una posizione che spezza 52 anni di equilibrismo, che dal 1967 – anno in cui gli israeliani conquistarono le alture dopo aver vinto la guerra con la Siria – Washington cerca di mantenere su quel territorio tutt’ora conteso, ma militarmente occupato dall’esercito israeliano.

La dichiarazione di Trump è un grosso appoggio a Israele, che sente la necessità strategica di controllare quell’area. Ancora di più adesso che le colline del Golan sono un avamposto per monitorare la Siria, dove l’Iran ha salvato il regime dalla guerra civile e ha ottenuto in cambio la possibilità di trasformare il paese in una piattaforma militare anti-ebraica (vedasi il rafforzamento delle postazioni siriana di Hezbollah, il gruppo libanese che non ha ancora chiuso il conflitto del 2006 contro Israele).

Israele è piuttosto interessato alle conseguenze che le evoluzioni conclusive del conflitto siriano potranno avere sulla propria sicurezza nazionale, e anche per questo ha da anni avviato una campagna di bombardamenti mirati per disarticolare la logistica che gli iraniani hanno studiato per rinforzare gli Hezbollah e altri gruppi anti-ebraici; in questi giorni Hamas, altra entità con collegamenti con l’Iran, è il più irrequieto con vari lanci di razzi dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano.

Sempre la scorsa settimana, in un altro messaggio di vicinanza (magari eccessivo), il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, da Gerusalemme, quando una giornalista americana gli ha chiesto se Trump era stato mandato da Dio per salvare Israele e gli ebrei ha risposto: “È possibile”. L’attuale Casa Bianca è, come dice Netanyahu, guidata dal “miglior amico di Israele”, e Bibi dice questo anche perché il predecessore, Barack Obama, era uno che aveva allentato un po’ l’amicizia con lo stato ebraico e soprattutto nutriva un’antipatia personale per il primo ministro.

Trump invece ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme (ossia ha riconosciuto la città santa capitale dello stato ebraico), ha ridotto sensibilmente i fondi all’Autorità nazionale palestinese, ora ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan, e fin dall’inizio della sua presidenza ha ingaggiato la campagna anti-iraniana come strategia centrale per la politica mediorientale.

Però, durante quello stesso viaggio, Pompeo ha anche messo in guardia gli alleati israeliani su un altro fronte delicatissimo. Il segretario ha chiarito che l’amicizia è forte ed è basata su radici profonde, ma se Israele non riduce la sua esposizione nei confronti della Cina, Washington potrebbe arrivare a riconsiderare uno dei pilastri sostanziali su cui quell’amicizia si basa: la condivisione di informazioni di intelligence con Gerusalemme.

Ossia, il capo della diplomazia americana ha messo in chiaro in faccia davanti ai più stretti alleati statunitensi che la questione Cina è prominente. Gli Stati Uniti sono impegnati in un confronto globale con Pechino, e non possono accettare penetrazioni cinesi di vario genere nei sistemi nevralgici dei propri partner (per esempio all’interno del porto di Haifa, sede di appoggio della Us Navy, o nelle telecomunicazioni).

Se l’appoggio sul Golan era un favore per il governo attuale (Netanyahu da tempo pressa su questo), e per le sue ambizioni di rielezione, la questione Cina è stata un richiamo diretto verso Netanyahu, che è colui che ha cercato di coinvolgere Pechino in Israele per sfruttare la logistica dei porti nel Mediterraneo – e su questo è piuttosto criticato da un settore dell’intelligence e dei militari, più vicini a Gantz.

Trump gestisce il dossier Israele anche con un’attenzione interna: se la questione Cina riguarda la proiezione globale statunitense, e dunque un super-interesse nazionale, prendere certe traiettorie secche pro-israeliane ha il duplice obiettivo di rassicurare i Repubblicani (sempre su posizioni sioniste) e stanare i Democratici. Questo è un aspetto interessante: all’interno dei progressisti statunitensi la questione israeliana è vissuta con ambiguità. Ci sono i due principali leader del partito, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, e il capo al Senato, Chuck Schumer, che parteciperanno all’Aipac, ma c’è una cordata di nuovi e molto apprezzati Dem che non solo non vi prenderà parte, ma attacca quando può lo stato ebraico.

Bernie Sanders, Beto O’Rourke, Kamala Harris ed Elizabeth Warren , i quattro principali concorrenti alle primarie democratiche, non parteciperanno all’Aipac, per esempio. Una di quelle che è considerata una stella nascente del Partito Democratico, la populista di sinistra Alexandra Ocasio Cortez,  ha chiesto ai suoi sostenitori delle nuove donazioni per appoggiarla nella sua battaglia contro l’Aipac dicendo che “alcuni membri del Congresso si sono spinti talmente oltre da convincerci che le relazioni Usa-Israele sono indiscutibili, ma non è così che funziona il processo legislativo”.

L’altra neoeletta Rashida Tlaib, la prima palestinese alla Camera, è accusata di antisemitismo per via di alcune sue uscite. Un’altra ancora, Ilhan Omar, rifugiata somala arrivata come Dreamer ed eletta in Minnesota lo scorso novembre, il 10 febbraio retwittava il giornalista Glenn Greenwald (quello del Datagate) il quale a suo volta riprendeva Kevin McCarthy, leader delle minoranza repubblicana alla Camera, che chiedeva un richiamo per le posizioni troppo critiche contro Israele prese da Tlaib e Omar. Greenwald si chiedeva retoricamente come mai i leader politici repubblicani spendono molto tempo a difesa di un’altra nazione, Omar riprendeva il tweet e citava il Puff Daddy di “It’s all about Benjamins baby”, dove Benjamin è un doppio senso che richiama al nome del primo ministro israeliano Netanyahu e a Franklin, impresso sui Cento dollari, per questo i Benjamins sono i quattrini.

Alla fine è stata la Speaker Pelosi a chiedere a Omar di scusarsi, perché aveva assunto posizioni antisemite di cui “non era a consapevole“. Trump conosce questo bug tra i suoi rivali politica interni, e prova a infilarcisi dentro mentre guarda agli interessi nazionali americani: dice, finora senza giustificazione nei dati, che ci sarà un “esodo” di elettori democratici verso di lui, perché si sentono traditi dalle posizioni prese dai loro rappresentanti su Israele.

 


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