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“Gli affari con la Cina metteranno a repentaglio le relazioni Italia-Usa”. Parla il professor Bozzo

Il punto sostanziale della grande questione sollevata dalla possibile adesione dell’Italia all’infrastruttura geopolitica cinese Belt and Road Initiative (Bri) non è tanto il contenuto dell’eventuale memorandum of understanding (MoU) che Roma e Pechino potrebbero firmare, ma in ciò che può rappresentare la mossa italiana. “Vale veramente la pena rischiare di spostarci da un asse storico che abbiamo con Stati Uniti e Nato per attrarre qualche investimento, e mettere a rischio le infrastrutture italiane? Perché per come adesso stanno le cose, di questo stiamo parlando”, fa notare a Formiche.net Luciano Bozzo, presidente del corso di Laurea magistrale in Relazioni internazionali e Studi Europei all’Università di Firenze.

I valzer italiani

Business contro strategia? La questione è dunque da porre nella prospettiva della collocazione del Paese nel sistema internazionale contemporaneo. “Prima della Prima guerra mondiale, Bernhard Von Bülow, che era stato cancelliere tedesco e prima ancora ministro degli esteri e ambasciatore a Roma, un amante dell’Italia che aveva sposato un’Italiana, disse che il nostro Paese è come una bella donna a cui bisogna concedere qualche giro di valzer. Intendeva dire che per conservare la solidarietà di un alleato gli si possono concedere, come a una moglie, dei diversivi piacevoli, a patto che il rapporto rimanga improntato a una reciproca fedeltà. Nella tradizione della politica estera italiana i giri di valzer non sono mancati e spesso sono stati ben tollerati dagli alleati. Il Paese, in virtù di una serie di circostanze legate alle sue dimensioni, tradizione, ambizioni e collocazione geo-strategica, ne ha avuto necessità. E i nostri alleati, in particolare gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, ci hanno lasciato più volte sufficienti margini di manovra. Si pensi soltanto alla politica italiana in Medio Oriente e in Africa Settentrionale negli anni della guerra fredda, o agli investimenti della Fiat in Unione Sovietica”.

Libertà e fiducia

Su cosa si basava questo margine di libertà d’azione? “Era concesso perché, comunque, la fedeltà italiana (intendo delle classi dirigenti del Paese) nei confronti dell’alleanza e del leader di coalizione non era in discussione. A Washington, in altri termini, potevano tollerare qualche ‘giro di valzer’ italiano, poiché sapevano che esso era frutto della volontà e necessità di tutelare il nostro interesse nazionale e, al tempo stesso, sapevano però di poter contare comunque su una solidarietà atlantica, resa necessaria anche dalle condizioni politiche interne, mai messa in discussione”.

E adesso?

Il professore ci spiega che l’Italia, in definitiva, si poteva permettere di perseguire determinati interessi nazionali, ad esempio in materia di forniture energetiche, investimenti all’estero, esportazioni o terrorismo, “perché tutti i partner occidentali, e in primo luogo gli Stati Uniti, sapevano che nell’ottica politico-strategica la collocazione italiana nel quadro del sistema bipolare non era in discussione”. E adesso? “Oggi la situazione è mutata e sta ancora mutando, perché dopo la fine della guerra fredda e il superamento della configurazione bipolare del sistema la politica internazionale è entrata in una fase nuova e per molti versi caotica. L’affermazione sulla scena globale di una nuova grande potenza, che in un quarto di secolo è divenuta la seconda economia mondiale, ha in ogni caso fortemente modificato il quadro globale”.

La sfida americana

Come? “È evidente che la RPC rappresenta oggi e per il prevedibile futuro l’unico vero challenger degli Stati Uniti ed infatti è altrettanto e ben evidente, già da prima dell’elezione del presidente Trump, che si è sviluppata e continua a svilupparsi una relazione fortemente competitiva tra Stati Uniti e Cina. Se dunque l’attenzione di Washington è rivolta al Pacifico e al nuovo sfidante, e se l’Italia, che pure ha perduto quella centralità che aveva in ottica geostrategica nel sistema della guerra fredda, rimane tuttavia un partner storico e importante degli stati Uniti, il ‘grande gioco’ della politica internazionale in cui si inserisce l’azione di politica estera italiana non può essere preso alla leggera”.

“Se il tuo potenziale partner economico è in rotta di collisione col leader dell’alleanza di cui fai parte da 70 anni e se da quest’ultimo arrivano chiari segnali di messa in guardia, rispetto alle possibili ricadute politiche e strategiche di determinati accordi economici, quei segnali debbono essere valutati con estrema attenzione”. Qui sta il punto centrale della riflessione.

L’Italia è ancora un alleato affidabile per Washington?

Cosa sta cambiando? “Probabilmente, oggi come ieri, gli Stati Uniti e gli altri partner occidentali sono disponibili a lasciare all’Italia il margine di manovra necessario a garantire al Paese la tutela degli interessi nazionali. Non credo che in discussione vi sia la possibilità di stringere specifici accordi economici e commerciali con Pechino o Mosca. Il punto è però un altro: la classe politica di oggi è altrettanto affidabile di quella del passato per quanto riguarda la collocazione internazionale del Paese, le grandi scelte in materia politico-strategica. Ecco, se questo è il punto occorre interrogarsi sulle conseguenze non solo degli accordi che saranno sottoscritti, ma anche e forse soprattutto su certe dichiarazioni e prese di posizione in materia di ‘appartenenza’ dell’Italia, di collocazione internazionale del Paese. I riferimenti della politica estera nazionale debbono continuare ad essere quelli storicamente consolidati o li si vogliono mutare? E, se sì, per andare dove e con chi?”.

Il rischio tradimento

Niente giri di valzer con la Cina, dunque? “Il punto vero credo che sia: sì, se si tratta solo di brevi giri di valzer. No, se prefigurano qualcosa di diverso e ben più impegnativo. Al di là di ciò che abbiamo già fatto con i Cinesi, dobbiamo prendere atto che la situazione internazionale è oggi molto più fluida di quanto non fosse negli anni del bipolarismo, le diverse dimensioni delle relazioni internazionali (economica, geostrategica, politica) sono interconnesse e qualsiasi azione sostanziale in un certo ambito è destinata a ripercuotersi in ambiti diversi, con effetti spesso più che proporzionali”.

”È questa del resto la caratteristica propria dei fenomeni caotici”, dice Bozzo: “Forse, se davvero volessimo attrarre gli investimenti esteri dei quali il il nostro Paese ha un oggettivo bisogno, prima (o comunque oltre) che a Pechino sarebbe opportuno guardare alle ragioni strutturali, più che note e tante volte dibattute, che costituiscono un ostacolo all’investimento estero in Italia e porre mano alle iniziative di riforma necessarie”.

Resta comunque il fatto che l’Italia, aderendo alla Bri, sarebbe il più importante paese occidentale ad adottare una simile iniziativa, l’unico del G7… “A Washington questo potrebbe apparire, con qualche ragione, non un valzer, ma qualcosa di simile a un tradimento, o che comunque può prefigurare un tradimento futuro, scoprendo, almeno potenzialmente, il fianco di un allineamento che è certamente nell’interesse americano contro Pechino”. Ci conviene una simile mossa? “Soprattutto, è realistica un’opzione del genere?”.

Perché gli Usa fanno sul serio: i segnali

“E non credo che gli Americani stiano scherzando”, chiosa il professore. Ci sono in effetti molti segnali che indicano la severità della posizione presa da Washington nei confronti di questa mossa italiana. Per esempio, potrebbe non essere un caso se adesso gli Stati Uniti avanzano anche richieste economiche come quella sugli F-35: l’Italia deve pagare circa 500 milioni di euro di arretrati per la consegna di alcuni dei velivoli Lockheed Martin, tanto che dopo l’ultimo Consiglio supremo di Difesa della scorsa settimana il presidente Sergio Mattarella è stato costretto a richiamare il governo al rispetto degli impegni sottoscritti. Ora Washington presenta il conto e forse c’è una sovrapposizione con l’avvicinamento cinese, che gli americani vedono come una mancanza di rispetto riguardo a interessi che dovrebbero essere comuni.

“Possiamo permetterci di ignorare questo genere di warnings che arrivano dagli Stati Uniti?” si chiede il professore fiorentino – avvisi come quello piuttosto esplicito che il Consiglio di Sicurezza nazionale ha pubblicato sul proprio profilo Twitter tre giorni fa. “Attenzione, perché questi dubbi sono più che altro una posizione razionale, non frutto di una linea politica: è un ragionamento strategico. Cosa conviene fare al paese? È vero che abbiamo bisogno di investimenti esteri, ma val la pena fare certi passi verso Oriente, oppure dovremmo colmare meglio deficienze strutturali senza correre il rischio di affidarci ai cinesi, con tutti i problemi che questo genere di ingressi si portano dietro (vedere per esempio l’Africa, o il Pireo)”.

La politica commerciale internazionale sganciata dalla politica estera?

“Ci sono dei preconcetti nei confronti della Cina”, ha invece osservato il sottosegretario al Mise Michele Geraci, l’uomo che sta movendo Roma verso Pechino. Geraci pone la questione sul piano del business, come se in casi come questo le questioni di politica commerciale potessero essere svincolate da quelle di politica estera. Bozzo è più scettico: “Il vantaggio economico c’è? Probabilmente abbiamo possibilità di offrire opportunità appetibili, ma qual è il prezzo politico-economico che si paga? Tutto si può fare, si può scegliere la strada di Maduro, ma se ne pagano le conseguenze poi. Ma è sensato correre un certo tipo di rischio, considerato il quadro generale e la situazione specifica del paese? Noi siamo allineati in ambito Occidente: c’è un’alternativa?”.

Implicazioni cinesi

Il punto sono le implicazioni in prospettiva futura e non il contenuto del MoU, che al momento non sembra portarsi dietro forti accordi economico-commerciali e metterà invece in ballo settori come le comunicazioni e le infrastrutture: “Se un paese si lega a una potenza non si può pensare che poi rimanga insensibile ai suoi desiderata. Non voglio dire che poi da Pechino arriveranno ordini espliciti, ma si creeranno situazioni in cui l’Italia non vorrà entrare in conflitto con la Cina per via della concatenazione degli interessi in ballo. Vogliamo entrare in un giro del genere?”.

Conte, il dossier e i servizi

Da qui la logica che muove le preoccupazioni americane è chiara. E diventa più evidente quanto sia delicato il terreno su cui si va ad agganciare l’adesione italiana al progetto cinese. Giorni fa, il premier Giuseppe Conte, che domani sarà in audizione al Copasir, ha detto di aver “sollecitato il comparto dell’intelligence perché sia definito in termini di strumenti operativi il perimetro di sicurezza nazionale”. Qual è il senso di questo pensiero? “Partiamo da un punto: l’audizione di domani è interessante, ma sarà più interessante in questa prospettiva vedere cosa dirà il premier nel discorso di inaugurazione della scuola di formazione al Dis, perché lì dovrà entrare nello specifico. Penso che al di là dell’equilibrismo semantico sarà difficile prevedere indicazioni su cambiamenti del perimetro strategico del paese. L’Italia è un paese dell’Alleanza Atlantica. Noi con chi collaboriamo? A chi diamo e da chi riceviamo informazioni? È realistico pensare che i nostri rapporti di intelligence possano giocarsi in futuro con la Cina? Non credo”.

Intanto l’intelligence italiana…

E Conte sembra aver detto chiaramente che i servizi avranno un ruolo sulle decisioni italiane a proposito di Bri. “Consideriamo – aggiunge Bozzo – che tutto questo movimento verso Pechino arriva in un momento in cui l’intelligence italiana sta facendo un giro nelle università del paese per mettere in guardia professori, ricercatori, laboratori e centri studi, sui rischi che si corrono creando contatti con paesi come Russia, Cina e Iran. Quindi, quanto meno per i nostri apparati di informazione e sicurezza, quei tre paesi sono considerati come nemici con cui adottare alcune cautele”.



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