Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Ecco perché con l’apertura a Pechino è a rischio il ruolo nella Nato dell’Italia

cina

Il governo italiano s’è preso un severo richiamo ufficiale dagli Stati Uniti, che hanno palesemente espresso preoccupazioni e posizione contrarie sulle aperture italiane alla Cina. Ieri l’account Twitter ufficiale del Consiglio per la Sicurezza nazionale statunitense (quello i cui tweet vengono registrati e archiviati come atti governativi) ha scritto: “L’Italia è una grande economia globale e una grande destinazione per gli investimenti. L’approvazione del BRI conferisce [invece] legittimità all’approccio predatorio cinese agli investimenti e non porterà alcun beneficio agli italiani”. Il National Security Council è l’organo che assiste la presidenza americana (e dunque anche l’amministrazione indirettamente) su decisioni e progettazioni di carattere strategico, e nel tweet di ieri si riferiva alla possibilità che l’Italia sottoscriva un memorandum d’intesa con la Cina per quel che riguarda la Bri, ossia la Belt and Road Initiative, il grande progetto con cui Pechino intende creare un’infrastruttura geopolitica con cui collegare il territorio cinese con l’Europa e l’Eurasia.

Qualche giorno fa, il portavoce del NSC era stato ospitato in un intervento riportato da articolo del Financial Times che riportava la prima dichiarazione esplicita di un membro del governo italiano (il sottosegretario al Mise, Michele Geraci) sulla firma. L’americano Garret Marquis – che anche ieri è tornato sull’argomento definendo la Bri un “vanity project” – metteva in guardia su quelli che Washington considera i problemi collegati a un’eccessiva apertura alla Cina: in estrema sintesi, finire sotto la pressione politica di Pechino e uscire dall’assetto strategico in cui storicamente s’è mossa Roma col rischio di “danneggiare la reputazione globale dell’Italia”.

Il secondo messaggio di sabato, del tutto simile nel contenuto, è arrivato l’indomani della dichiarazione con cui il premier italiano Giuseppe Conte ha annunciato che la firma ci sarà e arriverà quando il presidente cinese, Xi Jinping, sarà in Italia a fine marzo. Di più: Conte forse sarà a Pechino per un vertice internazionale organizzato per la Bri. Questa doppia tempistica con cui gli Stati Uniti marcano a uomo l’Italia non può sfuggire, ed è già di per sé rappresentativa di quanto gli Usa pongano concentrazione e interesse nella questione.

Gli americani sono impegnati in un confronto con la Cina e vedono nei disallineamenti degli alleati la possibilità che si crei un qualche genere di vulnus (America First non significa America Alone, ha detto qualche tempo fa Donald Trump dal palco del Wolrd Economic Forum, e soprattutto non significa che gli Usa abbiano intenzione di rinunciare alla loro potenza globale: su questo si basa il confronto con i cinesi).

Secondo una conversazione con cui funzionari della Casa Bianca hanno ragguagliato Paolo Mastrolilli della Stampa (il giornalista inviato a Washington del giornale torinese fa capire di essere stato praticamente convocato per questo colloquio di background) un’altra delle preoccupazioni americane riguarda la Nato: potrebbero esserci “problemi sull’interoperabilità” all’interno dell’Alleanza Atlantica, e mettere a rischio “joint venture con compagne civili e militari come Leonardo”, sulla sicurezza “siamo preoccupati per gli investimenti in tecnologia e infrastrutture critiche”. “L’Italia si separerebbe dal G7” dicono le fonti americane a Mastrolilli dando sostegno ufficiale a una strategia che avrebbe “un impatto negativo sulla governance globale”.

Una posizione simile, in allineamento con Nato e Europa, in Italia è stata espressa dalla presidenza della Repubblica, che ha già ribadito in questi giorni quanto fosse necessario per Roma non allontanarsi dal solco tracciato nella storia del paese dall’alleanza atlantica. Ma non solo.

Come su altri dossier (la Tav, per restare sulla cronaca) all’interno del governo ci sono visioni e posizioni non troppo concordi. Anzi. C’è chi pensa che l’argomento Cina possa rappresentare un punto di distanza talmente ampio che “bisognerebbe aprire una crisi di governo”, perché (le nostre fonti parlano unicamente a condizione di anonimato, data la delicatezza del tema. Ndr) allontanarsi dagli Stati Uniti non significa soltanto uscire da una traiettoria storica, ma “perdere un’occasione” che la presidenza Trump rappresenta in termini di “recupero della sovranità”, in cambio della quale “l’America chiede certamente trasparenza e cooperazione”.

Altrimenti, è lo stesso Global Times, media governativo cinese, a spiegare il contesto: la decisione dell’Italia avrà ripercussioni sul rapporto tra Roma e Washington, spiega uno degli editoriali che il giornale pubblica con l’obiettivo di diffondere meno direttamente la linea del governo di Pechino (attraverso esperti e consulenti non certamente di opposizione). Nel pezzo si parla del debito italiano e della scarsa crescita su cui la Cina potrebbe invertire il trend, cosa che “Stati Uniti e Unione europea non sono riusciti a fare”, mentre in un altro si trattano gli equilibri all’interno dell’attuale assetto occidentale Usa-Ue sostenendo che “l’Europa non dovrebbe lasciare che gli Stati Uniti violino le sue politiche in Cina”.

“Gli Stati Uniti si vedono come il grande fratello dell’Occidente”, scrive il GT, “sono irritati dall’imminente cooperazione” tanto “che non nascondono neppure l’intenzione di contenere” le iniziative degli europei, “ma questo significa anche che la decisione dell’Italia colpirà la politica verso la Cina degli Stati Uniti”. Gli Stati Uniti soffrono di un “senso di superiorità”, scrive Pechino, e “se l’Europa seguirà gli Stati Uniti e starà con gli Stati Uniti per contenere la Cina, darà via la sua posizione di importante pilastro del mondo”.

L’uomo che sta spingendo il dossier cinese è il sottosegretario Geraci, che ha Pechino come chiodo fisso, tanto che qualcuno dell’ambiente governativo lo soprannomina “il cinese”; è arrivato al Mise in quota Lega dopo esser stato consulente per i mercati esteri del partito, però ha nel curriculum ospitate programmatiche sulle colonne del blog di Beppe Grillo, che viene considerato il suo grande sponsor agli occhi di Luigi Di Maio, attuale guida del ministero in cui opera. Ma ci sono altre stanze dell’esecutivo romano che non vedono di buon occhio questo sprint orientale. Il momento è delicato: con le elezioni europee alle porte e una serie di amministrative che potrebbero riconsegnare dati diversi sul peso dei partiti, in pochi decidono di esporsi personalmente.

Uno di questi è Guglielmo Picchi, sottosegretari agli Esteri membro della Lega, che in questo momento è il partito più impegnato a tenere attivo gli ottimi rapporti con gli Stati Uniti e con Donald Trump: qualche giorno fa, per esempio, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, colui che ha inserito la centralità nel rapporto con Trump nel programma della Lega, era negli Stati Uniti a rinfrescare questi link attraverso incontri operativi e politici.

Anche Picchi è stato di recente impegnato in una proficua missione personale negli Stati Uniti (aveva anche il ruolo di preparare il terreno a Matteo Salvini, che però ancora negli States non ha avuto modo di andare). “Condivido le preoccupazioni. Non per compiacere i nostri alleati, ma perché uno screening più approfondito è necessario”, ha scritto ieri sera su Twitter rilanciando il richiamo del Nsc con un hashtag #MuOwithChina che aveva già utilizzato tre giorni fa, dopo l’intervista del collega Geraci al FT, quando diceva: “Credo ci sia lavoro da fare e ulteriore riflessione interna al governo necessaria. 5G e accesso infrastrutturale [sono] elementi di sicurezza nazionale da valutare con grande attenzione. Ad oggi non credo si debba procedere alla firma” del memorandum”.

Due giorni fa, il sito Euractiv ha pubblicato alcuni dettagli leaked a proposito dei contenuti di quel memoradum, che sono stati ripresi di slancio in Italia forse senza valutare troppo che il documento a cui si fa riferimento è dello scorso settembre, e che quello in dirittura di firma potrebbe essere stato modificato dopo l’ultima, importante visita con cui Geraci ha accompagnato il vicepremier e bisministro Di Maio in Cina due mesi dopo, a novembre 2018. Secondo il sito la futura cooperazione tra Italia e Cina comprenderebbe i settori di “strade, ferrovie, ponti, aviazione civile, porti, energia e telecomunicazioni”, investimenti in settori portuali italiani (di cui si parla da molto tempo) e attraverso Roma entrare nei sistemi di progettazione europei come TEN-T (quello di cui fa parte la TAV, che la Cina chiede e su cui invece il governo italiano non sembra trovare una quadra definitiva).

Dubbi simili a quelli sollevati in Italia da Picchi – a cui va il merito di essersi esposto direttamente – e da molti altri, sono stati sollevati anche dall’Ue. “Se una compagnia di Stato straniera vuole comprare un porto europeo, parte della nostra infrastruttura energetica o un’azienda di tecnologia di difesa – ha detto qualche tempo fa il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker – dovrebbe accadere in trasparenza, scrutinio e dibattito. È una responsabilità politica sapere cosa sta accadendo nel nostro giardino, in modo da proteggere la nostra sicurezza collettiva, se ce ne è bisogno”.

×

Iscriviti alla newsletter