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Il governo ignora le conseguenze dell’accordo con la Cina. L’allarme del generale Jean

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Il presidente cinese Xi Jinping sarà in Italia tra il 22 e il 24 marzo con una folta delegazione di imprenditori cinesi. La visita vuole promuovere un accordo-quadro non solo commerciale e finanziario, ma anche tecnologico e culturale. Ma soprattutto si propone di far firmare all’Italia un “Memorandum d’intesa” sulla partecipazione del nostro Paese – primo del G-7 – alla Belt and Road Initiative (BRI). Tale immenso progetto è volto a realizzare l’unità dell’Eurasia e ad accrescere la presenza e l’influenza cinese, non solo quella economica, ma anche geopolitica, dal Pacifico all’Atlantico, inclusi l’Africa Orientale dal Kenya all’Egitto e il Mediterraneo.

La “Belt” prevede la costruzione di cinque assi multimodali, stradali e ferroviari, che uniscono a giro d’orizzonte l’isolato territorio cinese con l’intera Eurasia. Raggiungono Singapore, il Bangladesh, il Pakistan, la Turchia e l’Europa occidentale, dalla Germania alla Spagna. Quest’asse dovrebbe svilupparsi da Mosca a Lisbona, passando a Nord delle Alpi. Marginalizzerebbe, quindi, la pianura padana e l’Italia, qualora non si connettesse con il “corridoio trans-europeo 5”, di cui il Tav Torino-Lione rappresenta una tratta.
La “Road” è una via di comunicazione marittima che dall’Oceano Indiano si spingerà fino al Mediterraneo. I suoi porti verrebbero collegati con i mercati dell’Europa Centrale tramite ferrovie ad alta velocità. Tutti i porti italiani, in particolare Trieste e Genova, verrebbero coinvolti. Lo è già quello greco del Pireo con una ferrovia ad alta velocità in corso di completamento con Budapest, che lo collegherà con Belgrado. Essa è finanziata dalla Cina nel quadro dell’accordo “16+1”, che lega Pechino con l’intera Europa orientale e balcanica. Tale accordo sta suscitando preoccupazioni anche a Mosca. Non si sa se Pechino miri a crearsi migliori condizioni per aumentare la sua influenza in Europa occidentale o a circondare la Russia a ovest, mentre ad Est sta penetrando in Asia Centrale.

L’iniziativa cinese sta suscitando preoccupazioni un po’ ovunque, soprattutto negli Usa, che la ritengono finalizzata a escludere gli Usa dall’Eurasia e a trasformare la Cina nella maggiore potenza mondiale prima della sua inevitabile decadenza derivante dalla demografia e dalla crescita dell’economia e della potenza militare indiana.

I fautori di un sostegno italiano alla Bri, in particolare il premier Conte e il ministro Di Maio, sostengono che si tratta di un’iniziativa solo commerciale, che rappresenta un’opportunità per l’Italia. Il nostro Paese capitalizzerebbe il fatto di rompere il fronte occidentale anti-Bri e anche il programma europeo di porre sotto controllo unitario la penetrazione di Pechino nell’economia europea. Ignorano, o fingono di ignorare, il suo impatto geopolitico, per carenze culturali, per leggerezza o per non riuscirne a vedere le implicazioni nei rapporti con i tradizionali alleati euro-atlantici dell’Italia. I più pessimisti ritengono che il governo italiano, non accogliendo “l’avvertimento” di Washington sulle conseguenze della firma di un accordo-quadro con la Cina, andrà a “sbattere”, come già avvenuto con le umiliazioni subite a seguito delle polemiche con la Commissione Europea.

È una preoccupazione che è stata espressa a chiare lettere nella recente riunione del Consiglio Supremo di Difesa, ma che l’arroganza del governo giallo-verde sembra ignorare, nella sua ricorrente retorica di non farsi condizionare dai “poteri forti”. Nella sua inadeguatezza, la nostra attuale classe dirigente non si è chiesta perché la Cina abbia insistito tanto sull’intesa con l’Italia. Certamente pesa la nostra collocazione centrale nel Mediterraneo, ma soprattutto la situazione tragica della nostra economia, che rischia di precipitare. Il sostegno cinese serve per mascherare l’inadeguatezza del “governo del cambiamento”. Pechino certamente pensa che la debolezza italiana consenta un accordo con il minimo costo. L’opportunità da sfruttare non è tanto per l’Italia, quanto per la Cina, che può strumentalizzare l’Italia per rompere il “fronte del no”.

Beninteso, gli Usa e le grandi potenze europee non sono contrarie ad accordi ad hoc con la Cina. Nessuna obiezione è stata sollevata alla partecipazione del premier Gentiloni al primo Forum sulla Bri, unico capo di governo di un grande paese occidentale a prenderne parte nel 2016. La spensierata e in parte garrula partecipazione del premier Conte al secondo Forum, che si terrà a Pechino a fine aprile, è tutt’altra cosa, anche perché è in atto una dura guerra commerciale fra Washington e Pechino e perché l’Ue dovrà decidere, sempre in aprile, la politica da seguire nei riguardi dei rapporti commerciali e dell’acquisizione cinese dei gioielli tecnologici e industriali europei. La mossa unilaterale dell’Italia viene di certo considerata un tradimento. Ce la faranno pagare duramente.

L’accordo con la Cina, voluto fortemente dal ministero dello Sviluppo Economico di Di Maio, solleva molti dubbi nel ministero degli Esteri, che ritiene ogni firma prematura. La diplomazia è persuasa che i costi di un accordo-quadro con la Cina supereranno nettamente i suoi benefici e che vadano valutati attentamente i rischi di provocare ritorsioni da parte dei nostri alleati. Tali rischi potrebbero essere considerevoli.

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