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Perché non servono tifoserie sul futuro dell’ex Fiera di Roma

Anche con la ex Fiera di Roma siamo arrivati a 13 anni trascorsi inutilmente. Nel 2006 il Comune di Roma redigeva il concorso per il riutilizzo dell’area, ma siamo ancora lontani dalla sua soluzione: non si conoscono i reali cambiamenti di destinazione d’uso e, soprattutto, le quantità da costruire sono in una costante altalena.

L’area sulla Cristoforo Colombo, 72.000 mq, dove sorgono ancora i capannoni dismessi e ormai fatiscenti, è stata abbandonata in occasione dell’apertura nel 2007 della nuova Fiera alla Magliana. Legata allo sviluppo della Via Imperiale, voluta da Mussolini e sostenuta urbanisticamente da Piacentini con progetti di piazze e viali sontuosi, rimasti in parte sulla carta, che avrebbero dovuto collegare Roma a Ostia, la ex Fiera di Roma viene realizzata solo alla fine degli anni ’50, dopo il suo riconoscimento come “Ente morale”. Nel 1959 diventa per la prima volta un’effettiva area espositiva. I suoi padiglioni sono arricchiti, all’inizio degli anni ’90, dal Palafiera, una gigantesca sala per congressi e, nel 1999, si trasforma nella Fiera di Roma spa, con soci fondatori: la Camera di Commercio di Roma; il Comune di Roma; la Regione Lazio.

L’attuale proprietà dell’area è di Investimenti spa, controllata, quasi interamente, dai tre soci fondatori – la Camera di Commercio per il 57%, il Comune di Roma per il 22% e la Regione Lazio per il 20%, di cui la metà è di una società della Regione stessa –. Investimenti spa contrae un mutuo, ancora da saldare, di 180 milioni di euro con Unicredit per la realizzazione della nuova sede e, proprio intorno a questa cifra, si muove l’altalena delle quantità di edilizia residenziale da autorizzare. All’entità delle superfici da edificare, e quindi da vendere, si lega infatti il volume finanziario, necessario per risanare il debito, che i tre Enti possono ricavare cedendo l’area agli investitori privati.

La misura dell’edificazione da autorizzare parte dalla quantità delle superfici esistenti – i capannoni (44.891 mq) – che, se trasformate in residenze e servizi, riuscirebbero ad assicurare un rientro di poco superiore alla metà del debito. Esso sarebbe tuttavia estendibile fino a 2/3 dell’intera somma avvalendosi dell’aumento consentito dalle norme del Piano Casa. Proprio sulla determinazione di tali quantità si attestano i conflitti che nei tredici anni hanno impedito di portare a compimento l’intera operazione. Per sanare i 180 milioni di debito è necessario infatti incrementare la superficie edificabile; ma questo, provocando un carico sulle infrastrutture di servizio, ha allarmato negli anni i comitati dei cittadini che hanno sollevato continue proteste. Tutto ciò ha profondamente condizionato le decisioni delle varie Amministrazioni Capitoline da Veltroni a Raggi.

A mio avviso, confondere le questioni finanziarie con lo sviluppo dell’area ha alterato la comprensione del problema urbano, banalizzando su fattori solo numerici valutazioni che invece appartengono a temi chiaramente progettuali. La qualità di un quartiere va misurata attraverso parametri che tengano nel giusto conto l’equilibrio tra le superfici residenziali e i servizi, proprio per evitare sia lo stato di ingolfamento che di sottoutilizzo. La valutazione delle condizioni ottimali va agganciata a parametri scientifici che, al momento, sembrano sopraffatti da un accanimento preconcetto, quasi da tifoserie contrapposte, tra chi pretende che non sia autorizzato un solo metro cubo in più rispetto all’esistente e chi, al contrario, pretende che i valori siano totalmente ridiscussi, perché l’esistente, dopo un profondo cambiamento d’uso, non ha nessun motivo per rappresentare la misura di riferimento.

Sono certo che partire dall’ammontare del debito è del tutto fuorviante: assumerlo come riferimento per determinare i permessi di costruzione allontana da ogni giusta e corretta programmazione urbanistica.

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