Oggi il Financial Times ospita un op-ed del sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico italiano, Michele Geraci, che cerca, come ha fatto più volte in queste ultime settimane, una de-escalation sull’ormai imminente adesione italiana alla Nuova Via della Seta (Bri). Lo scopo dell’intervento del China-Man italiano è di far passare tutto per una mossa dal sapore prettamente economico-commerciale, simile a quello che altri paesi europei hanno già fatto (non è così: su queste colonne l’hanno spiegato chiaramente sia Alessia Amighini che Germano Dottori, entrambi docenti specializzati in studi strategici).
Ma i primi a non essere convinti sono proprio quelli del quotidiano della City, che sette pagine prima dello spazio lasciato a Geraci pubblicano un articolo che spiega come mai la scelta di Roma potrebbe essere distruptive per il suo stesso sistema di alleanza (c’è pure uno scenario apocalittico descritto da uno che di Cina se ne intende, l’economista Alberto Forchielli, che su LinkedIn scrive: “Osservando le reazioni dei media e dei governi occidentali non escludo che l’Italia venga espulsa dal G7 e rimpiazzata dall’Australia”, che tra l’altro è uno dei paesi che più di tutti soffre le penetrazioni cinesi e sull’argomento si sta faticosamente attrezzando).
La campagna di rassicurazioni del sottosegretario italiano è passata anche dalla Bloomberg – con diretto messaggi agli americani: manteniamo “il dialogo [con voi] costante” – e poi dalla radio: “Il 5G non è mai stato oggetto di discussione, non è contenuto nel memorandum” al cui interno “non c’è alcun riferimento a progetti specifici e ad aziende” ha detto su Radio Capital stamane, ma anche in questo caso ci sono ambiguità. Giorni fa era stato l’ambasciatore cinese in Italia a dire che invece il nuovo sistema di trasferimento dati era nel pacchetto comprensivo dell’adesione e alla successiva cooperazione tra i due paesi, e oggi, durante la conferenza stampa congiunta col Presidente della Repubblica, il cinese Xi Jinping ha detto: “Vogliamo approfondire la fiducia politica e il coordinamento delle idee attraverso scambi e informazioni”. Che cosa significano “fiducia”, “scambi” e “informazioni”?
La dimensione è questa: gli Stati Uniti e gli alleati occidentali temono che Pechino voglia usare l’ingresso di alcune aziende cinesi nel mondo del 5G in Europa (e non solo: in Usa, Canada, Australia etc) per sfruttare backdoor da cui carpire segreti di intelligence. Washington minaccia di interrompere lo scambio di informazioni con chi si farà penetrare, ora Xi in visita in Italia dice che è pronto a condividere anche le “informazioni” con Roma. “Informazioni” non è un termine casuale, non se detto da un leader del Dragone, tanto meno se detto in un contesto delicatissimo come questa visita di stato, e significa scambi di intelligence (sarebbe bene qualche chiarimento, ndr).
Geraci dice una cosa, Pechino un’altra. Tutti lo chiamano “il cinese”, e lui gongola, sorride, d’altronde vive e insegna in Cina da più di un decennio: il sottosegretario è il vero motore dell’avvicinamento italiano alla Cina che avrà nella firma del memorandum d’intesa (MoU) per aderire alla Bri il suo culmine.
L’impresa del China-Man italiano è tutta in un’immagine: quando domani il presidente cinese Xi firmerà il MoU, per Roma sarà Luigi Di Maio a siglare l’intesa tra stati. Ossia, il titolare del dicastero di Geraci: non è un fatto scontato se si considera che tutti gli altri paesi che hanno finora aderito alla Bri hanno fatto firmare al ministro degli Esteri il documento.
La ragiona è multipla. Primo, il governo italiano sta cercando di difendersi dalle critiche feroci che hanno accompagnato la decisione – l’Italia è l’unico paese del G7 ad aver formalmente aderito a quello che è un piano geopolitico per portare la Cina sulla vetta del mondo, a discapito dell’asse occidentale. Mettere il Mise in primo piano ha anche lo scopo di portare l’attenzione sul piano economico-industriale-commerciale e spostarlo dalla sfera politica che invece interesse i critici – e gli aspetti più critici.
Secondo, la Farnesina in questo caso ha voluto tenersi a debita distanza dall’adesione: gli Esteri sanno che la mossa espone l’Italia ai rimproveri (o forse peggio, rappresaglie) di Stati Uniti e Unione europea. E c’è pure un passaggio politico interno: la Lega sta costruendo la figura atlantista del suo leader Matteo Salvini, un’operazione che passa anche dal Maeci e in particolare dal sottosegretario in quota leghista Guglielmo Picchi (non è un caso che Salvini abbia annunciato di non voler partecipare alla cena di stato che stasera il Quirinale organizza in onore di Xi; non è un caso se la visita di Di Maio, tre giorni dal 26 al 28 marzo, sarà priva di appuntamenti centrali e incontri con gli alti papaveri dell’amministrazione Trump).
Terzo, Geraci ha voluto intestarsi la pratica perché è stato lui a portare avanti i lavori sull’enorme dossier cinese, attività che passano dall’organizzazione della Task Force China interna al Mise da lui capitanata, fino alla cruciale visita di Di Maio al China International Import Export, una manifestazione internazionale che il governo cinese ha organizzato a novembre 2018 a Shanghai proprio per promuovere la Bri e durante la quale la delegazione italiana capitanata dal viceministro grillino dev’essersi convinta all’adesione.
“Dev’essersi”, anche perché è lo stesso Geraci che non ha sempre avuto una posizione così aperta sulla Cina, anzi. Non più tardi del 21 aprile dello scorso anno, scriveva sul suo sito personale: “27 su 28 ambasciatori dell’Ue criticano l’iniziativa Nuova Via della Seta (yi dai yi lu 一带 一路) perché ritengono che sia un progetto volto ad aprire nuovi mercati per la Cina per ridurre la sua sovrapproduzione. In altre parole, temono giustamente che la Cina competerà direttamente con l’Europa nel servire i paesi coperti dalla Via della seta”. Ossia, per definire alcune delle preoccupazioni che Usa e Ue hanno sull’attuale adesione italiana usava il termine “giustamente”.
Geraci sottolineava che la Cina ha investito molto in Europa, ma si è trattato per la maggior parte di operazioni non greenfield, ossia quelle che comportano creazioni di entità economiche nuove, ma quasi tutte brownfield, acquisizioni, “che non hanno portato ad un aumento di capitale né hanno creato posti di lavoro. Di fatto, un semplice scambio tra azionisti con pochi spillover positivi locali”. Il sottosegretario ha detto in questi giorni che i cinesi entreranno solo con investimenti greenfiled, ma intervistato dal Global Times, il giornale che il Partito comunista di Pechino utilizza per diffondere la linea governativa su dossier internazionali, ha detto che l’Italia è comunque aperta ad acquisizioni (ossia: brownfield).
Geraci, nel suo post dello scorso anno, parlava dell’Ungheria e delle relazioni con la Cina: Pechino e Budapest hanno chiuso l’adesione alla Bri nell’ambito dell’accordo economico “16+1” (patto tra paesi dell’Europa centrale e orientale e la Cina) su cui Geraci ironizzava che ormai era talmente forte l’influenza cinese che si poteva chiamare “15+2”. Un anno fa scriveva: “Ancora una volta, questo caso dimostra quello di cui da qualche tempo mi sto preoccupando, cioè che la Cina, nel perseguire il proprio interesse, usa l’unità del mercato unico europeo e cerca di penetrarla attraverso l’anello più debole, il paese che di tanto in tanto ha più bisogno della Cina”.
E spiegava: “All’inizio erano i porti della Grecia, ora sono le industrie dell’Ungheria”, e definiva Budapest il “nuovo cavallo di Troia” per Pechino in Ue. E l’Italia oggi, allora? Che cosa è cambiato in questo anno?