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Perché la promessa di Avramopoulos sui migranti sarà difficile da mantenere

sbarchi, Tunisi, migranti

Negli anni della crisi migratoria, i leader europei sono stati d’accordo sulla necessità di procedere a un riparto tra i vari Stati dei migranti arrivati in Europa e in particolare nei Paesi del mediterraneo. Ma alle parole sono seguiti pochi fatti.  Nel 2015, nel pieno della crisi migratoria, la Commissione europea ha avanzato una proposta di redistribuzione di almeno 100mila rifugiati provenienti da Italia, Grecia e Ungheria, ottenendo tuttavia consenso e una effettiva rilocation per circa un terzo. Ad oggi dall’Italia sono stati ricollocati in altri Paesi Ue non più di 15mila rifugiati. Resta ancora esclusa la possibilità, anche teorica, di ricollocare le centinaia di migliaia di migranti economici e irregolari presenti sul territorio italiano. Nel frattempo gli sbarchi continuano, con un significativo spostamento verso la Spagna e la Grecia, dopo la chiusura dei porti italiani ai flussi migratori.

In questo contesto, il Commissario europeo per le migrazioni Dimitris Avramopoulos ha dichiarato: “In attesa di cambiare le regole di Dublino serve un sistema temporaneo per gestire gli sbarchi”. Come dire che, non essendo possibile modificare il regolamento di Dublino per mancanza di unanimità, almeno si deroghi temporaneamente al principio secondo cui i migranti debbano essere accolti nei Paesi in cui sbarcano, consentendo un loro riparto tra i vari Stati. E questo, si rileva espressamente a Bruxelles, per tamponare il significativo aumento di arrivi in Spagna e una gestione più organizzata dei migranti sulle isole greche.

Le sollecitazioni di un Commissario europeo a fine mandato, analoghe a quelle che si ripetono senza risultati da anni, hanno poche speranze di essere ascoltate prima delle elezioni europee e appaiono motivate, al netto delle buone intenzioni, da ragioni politiche: dare sostegno ai governi di Spagna e Grecia, alle prese con seri problemi migratori, lasciando sullo sfondo la situazione in Italia, caratterizzata da flussi in netta diminuzione e gestita da un governo antieuropeista; nella speranza di ottenere almeno la disponibilità di qualche Paese europeo a farsi carico di una quota di migranti, per buona volontà se non per regolamento europeo.

Le parole di Avramopoulos meriterebbero tuttavia attenzione, perché mettono in luce una situazione instabile e problematica. I flussi migratori verso l’Europa sono connessi a squilibri socioeconomici e demografici strutturali tra continenti, oltre che a guerre e violenze, che continueranno ad alimentare per decenni gli sbarchi sulle coste europee; e la valenza continentale della pressione migratoria dovrebbe imporre una corresponsabilità di tutti i Paesi europei nell’affrontare il fenomeno, a prescindere dalla collocazione geografica, in nome dei valori di solidarietà e collaborazione che sono alla base dell’Unione europea. Ma così non è. E non a caso.

La verità è che, dietro le belle parole, il trattato di Dublino si fonda su una logica stringente, che continua ad essere operante: la responsabilità dei migranti che giungono in Europa compete agli Stati le cui frontiere sono attraversate, in quanto titolari dei poteri di controllo e contrasto dei flussi migratori. In altre parole, posto che la gestione delle frontiere è rimessa alle determinazioni dei governi nazionali e può essere realizzata con un ampio margine di discrezionalità, pur nell’ambito dei trattati che regolano la materia a livello internazionale, le conseguenze di tale gestione non possono che ricadere sullo Stato titolare delle frontiere. Diversamente, se si prevedesse una gestione automaticamente comunitaria dei migranti in arrivo, o la loro libera circolazione nell’area Schengen senza controlli, si verificherebbe una cesura tra la responsabilità delle frontiere e la gestione dei migranti, col rischio di far ricadere su altri Paesi scelte o carenze di gestione delle frontiere da parte dei Paesi di primo arrivo. E la logica basata sul rapporto tra responsabilità di frontiera e gestione dei migranti viene rinforzata dalle divisioni tra Paesi del nord e del sud dell’Europa, tra area mitteleuropea e mediterranea, tra economie virtuose e spendaccione.

Tale situazione può essere realmente modificata solo se si perverrà a un nuovo sistema di controllo delle frontiere europee, che sia effettivamente gestito da una polizia di frontiera europea, in mare e a terra, in modo da escludere ambiti di responsabilità degli Stati nazionali nella gestione dei flussi frontalieri, legittimando un riparto dei migranti tra tutti i Paesi europei secondo regole preordinate. Ed in effetti una proposta in tal senso è all’ordine del giorno della Commissione europea già da anni e di recente è stata rilanciata da Junker e Macron. La questione sarà esaminata alla luce degli equilibri politici del prossimo Parlamento europeo ma già si sono fatte sentire voci contrarie in ambito sovranista.

Fino a che una riforma in tal senso non sarà realizzata, almeno in parte, le differenti linee politiche dei governi nazionali nella gestione dei migranti in arrivo e la sfiducia che può essere sottesa alle relazioni intraeuropee, circa l’affidabilità dei governi nazionali nella gestione dei flussi, continueranno a ostacolare una vera politica migratoria comune e anche una ragionevole ricollocazione dei migranti che giungono in Europa.

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