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Perché Nicola Zingaretti può essere il terzo incomodo per la coppia gialloverde

Matteo Salvini e Luigi Di Maio non si amano più, litigano, ma continuano a stare insieme per interesse, sulla base di un contratto prematrimoniale non legittimato dall’elettorato, costituito da un elenco di propositi privi di coerenza. Sostengono il governo per realizzare ciascuno i propri obiettivi, accettando a malincuore quelli del partner.

La Lega ha interesse a portare avanti i fondamentali del suo programma (immigrazione, sicurezza, pensioni, autonomie), ed è premiata dai sondaggi: è quindi determinata a continuare l’esperienza di governo, almeno fino alle elezioni europee, quando spera di consolidarsi nei consensi. La sua linea politica è l’attendismo produttivo. Tuttavia, di fronte a un ostacolo insormontabile, potrebbe decidere di staccare la spina, ma solo se certa di portare il Paese alle urne, incassando un aumento di parlamentari eletti e lanciando la volata a un governo di centrodestra a guida Salvini.

I 5 Stelle hanno interesse a tener in sella il governo Conte, per consolidare l’attuale dirigenza del Movimento, avere tempo per incassare il dividendo politico del reddito di cittadinanza, recuperare le perdite di consenso delle elezioni regionali e probabilmente delle europee, evitare di subire un tracollo di parlamentari in caso di elezioni anticipate. La loro linea politica è l’attendismo difensivo. Ma anche per loro ci possono essere bocconi politici troppo pesanti da digerire, che possono portarli ad aprire una crisi, ma solo se sono certi di trovare subito un altro partner di governo, che gli permetta di evitare le urne.

Il segretario del Pd Nicola Zingaretti si inserisce nella relazione e, come terzo incomodo, può contribuire a una separazione dei partner e influire sul loro destino. Se vuole riportare il Pd al governo in tempi brevi, può cercare di farlo, lavorando sulle contraddizioni del governo gialloverde, in attesa che prima o poi deflagrino, e corteggiando i 5 Stelle, con l’offerta di una sponda di governo, capace di eliminare le remore dei grillini a rompere con la Lega: in fondo, il tentativo di formare un governo giallorosso a inizio legislatura fallì per la decisiva opposizione di Renzi, non più determinante nel Pd.
Dal punto di vista di Zingaretti, tale prospettiva potrebbe consentire al Pd di tornare al governo, ma avrebbe anche controindicazioni: esporrebbe il partito a una complicata convivenza con i gruppi parlamentari 5 Stelle, nettamente più forti e ancora permeati di una diffusa ostilità verso i dem; comporterebbe speculari difficoltà interne al Pd, per le ostilità presenti nel partito verso i 5 Stelle; produrrebbe problemi di rapporti di governo, per le molteplici divergenze sui temi concreti.

L’ipotesi tuttavia è condizionata all’esito delle elezioni europee: se una maggioranza Pd-5 Stelle fosse possibile nei numeri parlamentari ma improponibile in quelli politici, l’ipotesi tramonterebbe.
Ma Zingaretti potrebbe confermare di essere disinteressato a concupire i 5 Stelle e, in caso di crisi dell’esecutivo Conte, rendersi indisponibile a formare un governo giallorosso, spingendo per un ritorno alle urne. In tal caso resterebbe coerente con le critiche fino a oggi riservate ai grillini e potrebbe preordinare un recupero, in tutto o in parte, dei voti sottratti ai dem dai 5 Stelle, nell’ambito di una competizione elettorale a sinistra; inoltre faciliterebbe una rottura dell’alleanza di governo da parte della Lega, fugando le paure di Salvini per un possibile governo Pd-5 Stelle. Nel contempo, tuttavia, aprirebbe le porte a un governo di centrodestra, all’esito di una nuova tornata elettorale.

Il segretario Pd è chiamato a scelte difficili, ognuna gravida di potenzialità positive e negative, con impatto diretto o indiretto sul governo. Ha molte opzioni, a meno che la crisi economica non si traduca in una grave crisi politica e istituzionale, che metta il destino dei partiti e del governo nelle mani di Mattarella.



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