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Quel valzer in politica estera che non fa bene al governo gialloverde

Un passo verso Washington e due in direzione Pechino, una piroetta a Caracas e una a Teheran, un occhiolino a Israele e un altro ad Hamas, una mano sulle spalle di Mosca e Damasco e un’altra a Riad. Continua il valzer del Movimento Cinque Stelle in politica estera. Dall’approdo nella stanza dei bottoni nel giugno 2018 i pentastellati hanno faticato a trovare la bussola. A nove mesi dall’investitura le feluche grilline non riescono a confezionare una visione del mondo coerente.

Non che i colleghi leghisti abbiano seguito un solo file rouge. Il caso russo è eloquente: partito con il proposito di rivedere da cima a fondo le sanzioni Ue contro il governo di Vladimir Putin, Matteo Salvini ha col tempo allentato la presa, finanche trovandosi a contraddire, come in occasione della dura condanna al regime venezuelano di Nicolas Maduro, la linea del Cremlino.

Il percorso dei Cinque Stelle, però, si è mostrato assai più tortuoso. Non di rado improvvise retromarce e arroccamenti ideologici del Movimento di Luigi Di Maio hanno messo il governo di fronte a un aut-aut che i leghisti avrebbero volentieri evitato. L’ultimo in ordine cronologico è l’ormai noto caso Huawei. Avvertiti dall’alleato americano sul pericolo che un’incondizionata apertura del mercato 5G all’azienda cinese comporta tanto per la sicurezza delle infrastrutture critiche quanto per la salute dei rapporti transatlantici, i pentastellati hanno spesso glissato, spiegando che gli accordi con i cinesi non si possono stracciare da un giorno all’altro (una posizione più prudente hanno tenuto autorevoli esponenti del Carroccio come il sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi).

Con la stessa reticenza rispondono oggi i colonnelli di Di Maio a un altro monito, non meno pressante, degli americani. La Belt and Road Initiative (Bri), la gigantesca rete infrastrutturale terrestre e marina con cui il presidente Xi Jinping vuole riportare la Via della Seta ai suoi antichi fasti, “è un’iniziativa fatta dalla Cina, per la Cina”, ha ammonito il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca Garrett Marquis con lo sguardo rivolto a Roma. Niente da fare. La firma sul memorandum per aderire alla Bri attesa a Roma in occasione della visita di Xi il prossimo 23 marzo non comprometterà nulla, rassicurano dai piani alti, a cominciare dal sottosegretario al Mise Michele Geraci, l’uomo chiave per i rapporti con Pechino.

Posizioni legittime, che però cozzano con l’atlantismo sbandierato dai papaveri del Movimento all’indomani delle elezioni politiche, quando Di Maio&Co cercavano faticosamente di guadagnare la fiducia di Washington per accreditarsi come partito di governo e non solo di trincea. Così come cozza il no dei Cinque Stelle al nuovo meccanismo europeo di screening sugli investimenti diretti esteri con le barricate che, poco più di due anni fa, gli stessi avevano alzato all’Europarlamento opponendosi senza mezzi termini al riconoscimento alla Cina dello status di Economia di mercato (Mes) perché, recita un post sul Blog delle Stelle invecchiato male, il Movimento aveva scoperto “la truffa”.

La Cina è solo una faccia della medaglia. Poi ci sono le “montagne russe”. Concordata e sancita nel contratto la revisione delle sanzioni Ue contro Mosca e l’apertura al mondo imprenditoriale russo, Lega e Cinque Stelle hanno inizialmente imboccato due strade diverse. Gli uni avocandosi il primato di acerrimi nemici delle sanzioni, gli altri preferendo la via della prudenza, garantita dal non facile ruolo di bilanciatore del premier Giuseppe Conte. Con l’arrivo dell’inverno le parti si sono invertite. Ora che il Carroccio ha messo in sordina l’oltranzismo filorusso, sono i grillini a lanciare dichiarazioni d’amore a Putin. Prima difendendo con un guizzo d’orgoglio il regime venezuelano di Maduro screditato da gran parte della comunità internazionale e protetto da Mosca. Poi riportando in auge il tema delle sanzioni, che era passato in secondo piano dopo che per ben due volte Conte aveva votato a favore del rinnovo in seno al Consiglio europeo. Ospite della Duma, il presidente della Camera Roberto Fico ha solennemente auspicato che l’Europa superi una volta per tutte “il regime di sanzioni alla Russia del 2014”.

Tante, troppe le piroette di questi mesi di governo per essere messe in fila. Complici le divisioni interne, fra un’ala più oltranzista (ben incarnata da Fico, il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista) e una più dialogante e contraria agli strappi col passato, a cominciare dai rapporti con gli americani. Neanche sul Medio Oriente si è trovata la quadra. Ne è esempio la questione palestinese. Se il Carroccio si è subito accreditato come amico di Israele, dalle fila del Movimento si sono levate, a giorni alterni, manifestazioni di fiducia a Tel Aviv e voci di aperta condanna del governo di Benjamin Nethanyahu.

Il valzer della diplomazia a Cinque Stelle non rimarrà senza conseguenze. Da fuori c’è chi osserva, e valuta. Riporre la fiducia in una forza politica che parla a più voci e non ha un affaccio chiaro sul mondo è un rischio. Chi ha in mano il timone del Movimento dovrebbe rifletterci su, tanto più in vista di un appuntamento, le elezioni europee, dove davvero la politica estera farà la differenza.

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