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Chi ha detto che la Seconda Repubblica è finita?

Ah, la Seconda Repubblica. Un sospiro nostalgico attraversa l’aula magna della Lumsa. Chiamati a raccolta dalla Fondazione De Gasperi di Angelino Alfano, vecchi e nuovi protagonisti di una lunga stagione politica si sono ritrovati intorno al tavolo per cercare nel passato una chiave di lettura del presente. Più facile a dirsi che a farsi. In cattedra salgono volti rodati ma non marginali dei palazzi italiani, due ex premier, Massimo D’Alema e il neo-presidente Pd Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti e Ignazio La Russa, Fabrizio Cicchitto e Roberto Maroni. A celebrare la messa Bruno Vespa, archivio vivente di fatti e misfatti della politica nel Belpaese.

In prima fila gli fan compagnia Gianni Letta e l’ex ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, che ha appena annunciato il ritorno all’ovile berlusconiano dei centristi ex Ncd alle prossime europee. Con loro Alfano e Lorenzo Malagola, presidente e segretario generale della fondazione che porta il nome dello statista trentino. Sullo sfondo un convitato di pietra. Il nome di Silvio Berlusconi riecheggia di continuo, e non potrebbe essere altrimenti. Vespa riaccende il ricordo di quelle lontane elezioni del 1994, che gli ospiti ricordano fra un mea culpa e un sorriso. Tutti concordano: fu quella vittoria elettorale del Cavaliere a calare il sipario una volta per tutte sulla “Repubblica dei partiti”.

Il patto di ferro Forza Italia-Lega per espugnare il Nord, l’accordo con Alleanza Nazionale per fare breccia a Sud. Una strana ricetta di successo che è passata ai libri di storia. “Ricordo la delusione dei militanti dell’Msi di fronte a una conferenza stampa in cui si invitava il Nord a non votare altro che la lista Bossi-Berlusconi ­– dice La Russa – alla fine la bontà del progetto fu tale da convincere anche i più riottosi”. Di “grande intuizione” parla anche Cicchitto, mentre Gentiloni, allora braccio destro di Francesco Rutelli, si batte il petto: “Berlusconi ha avuto spregiudicatezza, ma anche una determinazione che noi non abbiamo messo in campo”.

È D’Alema a smuovere le acque. È vero, dice, la sinistra sbagliò a lasciare campo libero a Berlusconi, ma fu perché si disfece in fretta e furia dell’eredità comunista e il re-styling non fu credibile. “Ho sempre avuto un fastidio per il nuovismo, spesso il nuovo è peggiore del vecchio” chiosa l’ex premier con l’ennesima frecciatina ai “rottamatori” dem. “Io alle primarie del Pd?” scherza a margine con Castagnetti, “ma no, sarebbe scoppiato un vespaio, e poi non sono iscritto al partito”.

Se nessuno si sente di togliere a Berlusconi il merito di aver chiuso una stagione politica, manca però un’intesa su cosa sia questa “Terza Repubblica” che i gialloverdi vantano di aver inaugurato. E se il “sovranismo” fosse solo un fenomeno passeggero? L’ipotesi sembra convincere Gentiloni, che si cimenta nell’arte augurale. “È un’onda destinata ad avere una presenza minoritaria nelle istituzioni europee, i sovranisti otterranno intorno al 12-14% all’Europarlamento”. Anche Trump ha le ore contate, dice il presidente Pd: “Perderà alle presidenziali, a meno che i democratici non rispondano al suo radicalismo con una proposta radicale”.

Di tutt’altro avviso Maroni. L’ex presidente della regione Lombardia traccia a grandi linee la storia della Lega salviniana: “ha fatto il passaggio generazionale che Forza Italia non ha voluto fare”. Salvini è giovane e forte, dice l’ex segretario, ma non eterno. “Il suo è un consenso effimero, devi alimentarlo tutti i giorni e, insegna Renzi, può sparire da un momento all’altro”. Il leader padano è riuscito lì dove Bossi ha fallito: ha preso i voti di Silvio Berlusconi e in poco tempo gli ha strappato il timone di mano. Le elezioni europee del 27 maggio, conclude secco Maroni, saranno il vero spartiacque, altro che 4 marzo: “Se davvero Salvini riuscirà a mantenere questo consenso dopo il voto europeo finirà la Seconda Repubblica”.


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