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Ecco la risoluzione del Pd sulla Cina. No alla firma senza un voto alle Camere

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Il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, dopo aver parlato del dossier-Cina alla Camera è intervenuto anche a Palazzo Madama per fare il punto sulla strategia che il governo intende adottare in occasione della visita del presidente cinese Xi Jinping. Formiche.net è in grado di anticipare il testo che presenteranno al Senato i parlamentari del Pd.

Ecco la risoluzione:

Alla fine del 2013 il Governo cinese ha lanciato la ‘Belt and Road Initiative’ (BRI), un programma di investimenti infrastrutturali che punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la Cina e almeno altri 70 Paesi localizzati in un’area che rappresenta un terzo del PIL mondiale, racchiudendo almeno il 70% della popolazione e con oltre il 75% delle riserve energetiche globali;

l’obiettivo principale della BRI è quello di creare un grande spazio economico eurasiatico integrato, mediante l’apertura di due corridoi infrastrutturali fra Estremo Oriente e continente europeo, uno terrestre, Silk Road Economic Belt, e uno marittimo, Maritime Silk Road. In aggiunta alle due vie, marittima e terrestre, il Governo cinese a gennaio 2018 ha annunciato l’intenzione di realizzare una Via della Seta Polare, che si dovrebbe sviluppare lungo tre rotte attraverso l’Artico: un passaggio a nord-est in Russia, uno centrale e uno a nord-ovest in Canada;

secondo diversi analisti, la BRI è un progetto attraverso il quale la Cina sta provando ad assicurarsi influenza sull’economia mondiale per i prossimi decenni, legando a sé moltissimi paesi tramite prestiti, finanziamenti e il controllo diretto di grosse infrastrutture commerciali. In tal senso, si pensi all’acquisto da parte dell’impresa cinese Cosco del Pireo nel 2016, che con 368,5 milioni di euro ha acquisito il 51 per cento del capitale della Piraeus Port Authority, nonché all’acquisto di diversi asset sovrani come quelli del Venezuela, Sri Lanka, Kenya e Pakistan;

il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha dichiarato che l’Italia potrebbe sottoscrivere un memorandum di intesa – Memorandum of Understanding (MOU)- per sostenere la Belt and Road Initiative, in occasione della visita del presidente Xi Jinping in Italia il prossimo 21 marzo;

il sostegno all’iniziativa italiana, in linea di principio, appare condivisibile: nel maggio 2017, l’allora Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, aveva partecipato alla prima Belt & Road Initiative Forum tenutasi a Pechino; tuttavia, l’attuale Governo ha impresso al negoziato un’ ingiustificata accelerazione, che pone il nostro paese per l’ennesima volta, nei contesti internazionali, in una posizione di “isolamento” rispetto ai nostri naturali e storici alleati. Il MOU, infatti, è un accordo che non ha valore legale vincolante, ma che, ha innegabilmente una rilevante valenza geopolitica sull’assetto delle alleanze strategiche del nostro Paese;

nell’elenco dei paesi membri dell’Unione Europea che sono entrati a far parte ufficiale della BRI, attraverso la firma di un apposito MoU, non compaiono, infatti, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Belgio ed altri paesi membri dell’Europa occidentale e settentrionale, né tantomeno il Regno Unito, che come noto sta uscendo dall’Unione europea. A quanto detto, si aggiunga che come riportato da diversi organi di stampa, la scelta del Governo italiano di aderire alla BRI desterebbe notevole preoccupazione presso gli Stati Uniti; secondo quanto fatto trapelare dall’amministrazione statunitense tale scelta minerebbe la collaborazione tra le aziende americane e italiane, nonché l’interoperatività della Nato, mettendo in sostanza a rischio la nostra funzionalità nell’Alleanza Atlantica;

diversamente, hanno firmato il predetto protocollo d’intesa Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia, l’Italia, segnerebbe, così, l’ennesimo passo in direzione antieuropeista e a favore del c.d. “Blocco di Visegrad”, essendo, inoltre, il primo dei paesi del G7 a firmare un accordo del genere con la Cina;

la Commissione europea ha consegnato al Consiglio europeo e al Parlamento europeo, anche in vista del vertice Europa-Cina che si terrà il 9 aprile, una Comunicazione, nella quale esprime forti perplessità e preoccupazioni sul modus operandi delle pratiche commerciali cinesi. Secondo la Commissione, la crescita del potere cinese, la pervasività della sua penetrazione in alcune economie, comprese quelle europee, il mancato rispetto di norme base del diritto internazionale, «mette a rischio» non solo il mercato unico della Ue, ma «gli stessi valori, economici e sociali, dell’Unione», Inoltre, richiede al Consiglio europeo di adottare dieci azioni concrete e un’analisi dettagliata dei problemi che esistono fra governo cinese e UE, anche in ragione dei diversi modelli di governance;

nonostante la Cina abbia sempre sostenuto di non esercitare alcuna ingerenza negli affari interni dei Paesi partner, tuttavia, come sottolineato dalla Commissione europea, la Grecia, ove l’impresa cinese Cosco nel 2016 ha acquistato il porto del Pireo, ha bloccato una risoluzione europea alle Nazioni Unite critica nei confronti dei diritti umani in Cina. Lo scorso 19 settembre 2018, inoltre, l’Alto Rappresentante degli Affari Esteri europeo, Federica Mogherini, presentando la EU-Asia connectivity strategy, il progetto dell’Unione europea per migliorare la connettività infrastrutturale, digitale, energetica e culturale fra i due continenti, ha riaffermato i principi di trasparenza, libero scambio, sostenibilità e protezione dei diritti alla base delle democrazie occidentali, quali premesse essenziali per la realizzazione di progetti infrastrutturali internazionali;

sebbene il MOU non sia tecnicamente un trattato internazionale ha per le ragioni evidenziate implicazioni tali che meriterebbero la discussione e l’espressione del parlamento in merito;

considerando che, venendo agli aspetti tecnici del citato Mou, fermo restando la sua natura giuridica non vincolante la bozza di memorandum, i cui contenuti non sono noti nel dettaglio, spazierebbe da “Dialogo sulle politiche, Trasporti, logistica e infrastrutture, Rimuovere ogni ostacolo al commercio e agli investimenti, Collaborazione finanziaria, Connettività tra persone e Cooperazione allo sviluppo nel rispetto dell’ambiente”, senza entrare mai nel merito di quali saranno gli “obblighi e i doveri” delle due parti.

A tal proposito, appare opportuno ricordare che nell’aprile 2018 gli ambasciatori di tutti i paesi UE, ad eccezione dell’Ungheria, hanno firmato un report critico del progetto di Pechino, sottolineandone la mancanza di trasparenza e il fatto che l’iniziativa, al momento, promuova esclusivamente gli interessi commerciali delle aziende cinesi;

secondo quanto riportato da diversi organi di stampa, sembrerebbe che siano in tutto 50 gli accordi in fase di negoziazione in queste ore fra Italia e Cina. Ventinove accordi, fra enti pubblici e ministeri italiani e le controparti cinesi, coinvolgerebbero quasi tutti i possibili campi di collaborazione: accordi fra le due dogane, reciproco riconoscimento delle patenti di guida, scambi universitari e accordi fra Fondazioni, intese su ricerca spaziale, televisione – sarebbe coinvolta anche la Rai – e informazione. Ventuno, invece, le intese al momento in fase di contrattazione con le imprese private o partecipate dell’Italia e quelle cinesi; tali intese coinvolgerebbero la Cdp, la Snam, Sace, Enel, Terna, Fincantieri, i due maggiori gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo, Danieli, l’Eni che dovrebbe siglare con Bank of China un accordo di cooperazione finanziaria per attività esplorative sul territorio cinese, Italgas, le autorità portuali di Genova e Trieste, le Ferrovie dello Stato che si candidano a trasportare le merci che escono dal Pireo sino al cuore dell’Europa. La portata dei predetti accordi è tale da far apparire fondata la preoccupazione che l’Italia non sarà più in grado di recedere dalla firma del MoU e dai pesantissimi effetti geopolitici che ne deriveranno, per non compromettere gli accordi commerciali favorevoli alle nostre imprese;

mentre dal punto di vista degli investimenti sulle infrastrutture interne, quali in ultimo la TAV, l’attuale maggioranza di governo ha mostrato segni di contraddittorietà chiedendo di avvalersi di innumerevoli studi costi/benefici, relativamente al predetto memorandum si muove, invece, senza l’indispensabile lavoro di approfondimento. Al riguardo, occorre evidenziare come la mancata realizzazione della TAV implichi pesanti ricadute negative sull’interoperabilità dei sistemi ferroviari europei e degli scambi commerciali fra i Paesi membri della Ue con conseguente beneficio degli interessi del governo cinese;
in una nota del ministero dello Sviluppo economico si afferma che il MoU “non comprende alcun accordo inerente la tecnologia del 5G”, tuttavia, permane la preoccupazione che anche questo settore possa essere a breve oggetto d’intesa, soprattutto alla luce delle implicazioni che comporterebbe in materia di sicurezza e intelligence;

analogamente, occorrerà prestare la dovuta attenzione qualora si verifichino investimenti sulle infrastrutture strategiche per il nostro paese quali porti e aeroporti;

impegna il governo

– a proseguire nello sforzo cominciato con i governi Renzi e Gentiloni per lo sviluppo delle relazioni commerciali con la Cina, anche nell’ambito della Belt and Road Initiative, sospendendo tuttavia la firma del Memorandum of Understanding prevista nel corso dell’imminente visita di Stato del Presidente Xi Jinping;

– a valutare approfonditamente tutte le implicazioni e le conseguenze di una firma in un momento successivo – in particolare per ciò che riguarda il sistema delle nostre alleanze internazionali, della tutela del nostro sistema produttivo, dei nostri asset strategici e del know-how – e di non procedere in tal senso senza una specifica e preventiva deliberazione parlamentare.

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