Chiuso un capitolo se ne apre un altro. Il sommario del rapporto Mueller diffuso dal Procuratore generale William Barr ha fatto tirare un sospiro di sollievo al presidente Donald Trump: non c’è stata collusione con i russi. Ma il sipario sul caso Russiagate non è ancora del tutto calato. “Questa è solo una faccia della medaglia”. Mark Mazzetti ci parla dal suo ufficio a New York. Firma di punta del giornalismo investigativo del New York Times, due volte vincitore del premio Pulitzer, ha seguito dagli albori gli intrighi russi intorno alla Casa Bianca trumpiana. La vera eredità di Mueller, ci spiega, è aver certificato le interferenze russe nella campagna presidenziale del 2016. Il crimine cibernetico è un business che il Cremlino conosce bene. Ma, svela la sua ultima inchiesta, c’è chi oggi vuole fare concorrenza a Vladimir Putin in quel campo, e ci sta riuscendo alla grande.
Possiamo considerare il responso di Mueller la più grande vittoria della presidenza di Trump?
È difficile dare giudizi definitivi dal momento che non abbiamo ancora visto il rapporto né sappiamo con certezza quali prove ha accumulato. Di certo la determinazione che non c’è stata alcuna cospirazione è un’ottima notizia per Trump, perché mette in sordina i tentativi del Congresso per un eventuale impeachment.
Dobbiamo aspettarci sorprese dalla pubblicazione dell’intero rapporto?
Sono sicuro che ci troveremo informazioni rilevanti mai rese pubbliche. Il punto cruciale è scoprire quali prove ha Mueller sulla possibile ostruzione alla giustizia di Trump e sui contatti fra il suo team e gli ufficiali russi. La parte più contestata del sommario pubblicato da Barr è quella in cui si dice che non si può escludere un reato da parte del presidente. Speriamo che quasi tutto il rapporto venga presto pubblicato.
Con la collusione credi che cadrà anche l’accusa di ostruzione alla giustizia?
Credo restino due aspetti separati. Come ha spiegato Barr il sommario è diviso in due parti con due diversi giudizi, uno sulla collusione e l’altro sull’ostruzione alla giustizia. Certo, in qualche modo restano correlati, perché se c’è stata ostruzione di Trump è per rallentare o sviare le indagini sulla collusione con i russi.
Come reagiranno i democratici? Su quel rapporto hanno scommesso molto nella campagna elettorale per le midterm…
Ora la vicenda si farà più politica. I democratici hanno annunciato che indagheranno nonostante quanto emerso dal sommario del rapporto Mueller, hanno il potere per farlo al Congresso e non si fermeranno fino alle prossime elezioni. Certo, se decideranno di avviare comunque l’impeachment se ne assumeranno i rischi. Le conclusioni di Mueller hanno gettato via dalla finestra quella possibilità.
Il Dipartimento di Giustizia ha incriminato 12 agenti dei servizi russi (Gru) per le interferenze nelle presidenziali del 2016. Riuscirà a far scontare loro la pena?
Sono 12 agenti del Gru e altri 13 cittadini russi, in tutto 25. È difficile che il Dipartimento di Giustizia riesca a processarli. Se c’è un’eredità che rimarrà delle indagini di Mueller è quella di aver affermato che senza ombra di dubbio c’è stata un’interferenza dei russi nelle elezioni.
Non era un dato acquisito da tempo?
Quando sono iniziate molta gente non ci credeva, ora non sento nessuno dubitarne. Un’altra cosa che il lavoro di Mueller ha chiarito sono i contatti fra i consiglieri della campagna di Trump e i russi, pur senza trovare gli estremi di una cospirazione.
Quanto è difficile scovare il filo rosso che unisce i cyber-criminali al governo cui rispondono?
Quella è la parte più difficile del lavoro. Il team di Mueller ha avuto accesso a informazioni altamente classificate, mi ha sorpreso vedere quanti dettagli sono stati pubblicati. Dalla lettura dei capi di imputazione contro i 25 russi sembra ci sia stata una chiara correlazione fra le loro azioni e le direttive del Cremlino.
Nella tua ultima inchiesta racconti di un nuovo volto del cyber-warfare. Compagnie private e gruppi di mercenari sono entrate nel business del cyber-crimine facendo concorrenza agli Stati. Ci puoi spiegare di cosa si tratta?
L’innovazione tecnologica ha permesso di privatizzare gli strumenti dello spionaggio. Tutti gli Stati hanno sempre spiato i loro avversari nella storia, ma fino a poco tempo fa le tecnologie più avanzate erano a disposizione di una manciata di grandi potenze come Stati Uniti, Russia e Cina. Grazie al progresso oggi c’è una miriade di aziende private che vendono questi strumenti a piccoli Stati come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar. In questi anni abbiamo rilevato una maggiore assertività nel campo dello spionaggio da parte di questi Stati.
Parliamo solo di Stati autoritari?
Nella nostra inchiesta abbiamo scritto di alcuni Paesi dell’Est Europa che hanno acquistato mezzi di spionaggio da un’azienda israeliana, la Nso. A questa stessa compagnia è ricorso il governo messicano per combattere i cartelli della droga. È un business che riguarda tanto le democrazie quanto gli Stati autoritari. La differenza è che questi ultimi spesso acquistano tecnologie da aziende private per combattere narcotrafficanti o gruppi terroristici e poi finiscono a usarle per spiare e opprimere giornalisti e dissidenti.