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Mille soldati americani resteranno in Siria? Le richieste del campo e le intenzioni di Trump

Secondo le informazioni raccolte dal Wall Street Journal e pubblicate in un articolo uscito domenica, gli Stati Uniti avrebbero intenzione di lasciare un contingente da più o meno mille soldati in Siria. I militari saranno divisi in due aree: una al nord sul confine turco, l’altra al sud nella zona di al Tanf. La suddivisione geografica, per chiunque segue da sufficiente tempo le dinamiche della situazione siriana, ha un valore programmatico tattico-strategico.

Il dispiegamento a nord, infatti, avrebbe lo scopo di contenere le ambizioni turche. La Turchia da molto ha messo gli occhi sulla fetta di Siria settentrionale che è stata liberata dall’occupazione califfale per mano delle milizie curdo-arabe, dove i curdi sono azionisti di maggioranza: Ankara li vede come nemici, perché alleati del Pkk e vorrebbe dare il via a un’azione militare per annientarli e riportare il territorio sotto il controllo del regime.

È un ragionamento pragmatico, i turchi sono formalmente nemici del regime siriano di Bashar el Assad, ma la missione contro i curdi avrebbe un interesse negli equilibri politici interni ed ha l’avallo di Iran e Russia, alleati di Damasco. Invece gli Stati Uniti sono contrari e stanno creando una sorta di firewall, una zona cuscinetto di qualche dozzina di chilometro. Per Washington se i turchi sono alleati Nato, i curdi sono i valorosi militari che hanno sconfitto il simbolo del Califfato, la dimensione statuale che faceva da magnete per raccogliere il jihad degli estremisti islamici sparsi per il mondo. Sono loro che oggi stanno combattendo nell’enclave di Baghuz – assistiti a terra e dal cielo dagli americani secondo quello schema di intervento ibrido che farà scuola – dove è rimasta l’ultima sacca di resistenza di quello che fu lo Stato islamico di Abu Bakr al Baghdadi.

Oggi è stato reso noto che un volontario italiano partito convinto dagli ideali romantici della causa rivoluzionaria curda per combattere contro il Califfo e per il Rojava – il fiorentino Lorenzo Orsetti, noto col nome de guerre “Tekośer” – ha perso la vita nei duri scontri con cui i baghdadisti stanno difendendo quel fazzoletto di case (secondo alcune informazioni la difesa di Baghuz sarebbe così arcigna perché in mezzo a combattenti semplici ci sarebbero quadri di prestigio dell’organizzazione). I miliziani di Baghdadi chiamano Tekośer un “crociato italiano”, ma la sua vicenda racconta del potere di magnetizzazione che la storia dei curdi ha prodotto in giro per il mondo: un popolo senza terra, con pochi diritti e con un organizzazione interna anarchica, che ha appoggiato la causa militare al fianco della potenza americana per difendere il mondo dall’odio del radicalismo jihadista fatto stato. È l’altro jihad siriano: Orsetti non era solo, ci sono stati oltre una dozzina di italiani con i curdi contro Baghdadi e la sua stessa sorte pochi mesi era toccato al connazionale Giovanni Francesco Asperti.

Per quel che riguarda invece la presenza meridionale, nella postazione avanzata di al Tanf, avrebbe invece una funzione di contenimento nei confronti dell’Iran, che sfrutta quella zona come direttiva di collegamento con l’Iraq (è vicino all’autostrada Baghdad-Damasco, logistica usata dagli iraniani per arrivare in Siria). Teheran ha buttato soldi e uomini per puntellare Assad, alleato che permette alla Repubblica islamica la proiezione mediterranea, ma gli Stati Uniti – insieme ai partner regionali come Arabia Saudita, Israele, Emirati Arabi– hanno come programma mediorientale il contenimento di questa escalation di influenza geopolitica pensata dalla Repubblica islamica. Al Tanf avrebbe funzione di deterrenza.

Oggi il capo dello stato maggiore congiunto, il generale che guida tutte le forze armate statunitensi, Joseph Dunford, ha detto in una nota stampa che l’articolo del WSJ è “di fatto non corretto”, non rivela niente di nuovo, non c’è stato alcun cambiamento rispetto “i piani di febbraio” (divulgati dalla Casa Bianca), e il Pentagono sta lavorando per lasciare in Siria “una presenza residua” – che stante a febbraio dovrebbe essere composta da un quinto dei militari dichiarati nell’articolo.

Dunford deve giocare anche la carta del politico, richiesta in ruoli militari di altissimo livello come il suo. Il generale sa che il destino del contingente militare statunitense in Siria è una questione delicata, perché è stato affrontato direttamente dal presidente Donald Trump, quando il 19 dicembre del 2018 dichiarò che tutti i soldati Usa – attualmente sono poco più di duemila – sarebbero tornati in patria entro un mese. L’Is è sconfitto, che cosa restiamo a fare lì, diceva Trump.

I fatti dicono che attualmente, a tre mesi da quelle dichiarazioni, tutto il contingente americano è ancora lì invece (escluso qualche cassa di equipaggiamento di troppo, che avrebbe reso meno agili le operazioni), il Califfo è assediato ma resiste a Baghuz mentre lancia messaggi che comunque dopo la sconfitta non finirà (anzi, sarà pronto a risorgere), gli iraniani sono il nemico numero uno degli americani e dei loro alleati e sembrano sempre più forti in Siria. Tutto ha il sapore di un altro scivolone per Trump, che prometteva un disimpegno dall’aroma America First, cercando anche il coinvolgimento di contingenti alleati da mettere in sostituzione tattica.

Il WSJ parla anche di questo: il numero fissato sarebbe 1500 unità, gli americani potrebbero mantenerne un minimo di 400, mentre gli altri andrebbero messi a disposizione da un gruppo di volonterosi paesi partner. Ad oggi, non ci sono stati impegni pubblici da parte degli alleati, il che significa che il numero degli statunitensi dovrebbe essere più ampio, perché per il Pentagono quelle unità sono il minimo per essere significativi in un territorio ostile, sia per la presenza dei jihadisti, sia dei nemici iraniani (e russi).

Dunford ha aggiunto però che Ankara e Washington hanno concordato un qualche tipo di regime di sicurezza lungo il confine turco-siriano: “Abbiamo un concetto iniziale (comune) che sarà perfezionato nei prossimi giorni, pianificandolo con altri membri della Coalizione che hanno indicato l’intenzione di sostenere la fase di transizione delle operazioni in Siria”. E questa è un’altra dichiarazione piuttosto politica che intercetta le letture geografiche di cui si parlava. La Casa Bianca vuole limare al massimo il proprio coinvolgimento – in Siria come in Afghanistan, per esempio – e chiede ai paesi amici un aiuto e una ridistribuzione degli oneri, e se al nord risolve con la Turchia, può concentrarsi meglio sul sud.

(Foto: Wikipedia)



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