Alla fine della visita in Italia del presidente cinese, Xi Jinping, la sintesi è che tutto sia ruotato intorno al Presidente della Repubblica. Non solo nei giorni degli incontri, ma da parecchio prima. Senza l’intervento di Sergio Mattarella non si sarebbe raggiunta la mediazione che ha portato alla firma di numerosi accordi commerciali e a un’intesa di fondo, sensibilmente sfrondata rispetto alle intenzioni cinesi e del Movimento 5 stelle. I rischi di cavalli di Troia più o meno visibili, le feroci polemiche nel governo, le “perplessità” di altri Stati europei, le preoccupazioni americane e quelle degli apparati di sicurezza italiani su potenziali intrusioni del gigante asiatico hanno portato a un ridimensionamento, anche se resta il dubbio sul tema delle telecomunicazioni, inserito nel memorandum pur senza riferimenti alla tecnologia 5G della Huawei.
L’intenzione di collaborare nel reciproco interesse, su “una strada a doppio senso” come sottolineato da Mattarella, è stata dimostrata anche dall’accoglienza regale riservata al presidente cinese e a sua moglie e il commento di Xi Jinping rientra nella buona educazione diplomatica: è stato un grande successo. Mattarella, suo malgrado, ha dovuto anche supplire all’assenza dei leader politici alla cena di gala al Quirinale: Matteo Salvini e Luigi Di Maio erano in Basilicata per la campagna elettorale.
IL QUADRO INTERNAZIONALE
Gli accordi stipulati tra Italia e Cina vanno considerati da due punti di vista: internazionale e interno. Nonostante le rassicurazioni del governo italiano, le reazioni europee sono state severe. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha spiegato che nel Consiglio europeo del 22 marzo si è discusso dei rapporti con Pechino per ribadire la sovranità europea superando le divisioni e ha definito la Cina “un rivale sistemico, anche se rappresenta un partner economico” per l’Unione europea. Le cronache da Bruxelles riportano anche il nervosismo di Angela Merkel che contesterebbe all’Italia di agire da sola. Il comunicato conclusivo della riunione sfiora appena queste divisioni limitandosi a “uno scambio di opinioni sulle relazioni generali con la Cina nel contesto globale” e alla preparazione del vertice Ue-Cina che si terrà il 9 aprile.
Nella nota si afferma comunque che “il Consiglio europeo attende con interesse la raccomandazione della Commissione su un approccio concertato in materia di sicurezza delle reti 5G” e ribadisce che “il nuovo quadro europeo per il controllo degli investimenti esteri permetterà agli Stati membri di contrastare gli investimenti che minacciano la sicurezza o l’ordine pubblico”. Su questo regolamento per il controllo l’Italia si è astenuta (posizione equivalente a voto contrario), un atteggiamento che, secondo alcune interpretazioni, è cambiato dall’iniziale voto favorevole dopo il viaggio di Di Maio in Cina nei mesi scorsi. Commenti a parte, i fatti dicono che al vertice di martedì 26 marzo a Parigi con Macron, Merkel e Xi Jinping l’Italia non è stata invitata mentre il presidente cinese firmerà nelle prossime ore un accordo sul 5G con il Principato di Monaco e ne discuterà anche con Macron nell’ambito degli accordi da sottoscrivere durante la visita nella capitale francese.
Le parole di Mattarella sull’inequivocabile posizione euroatlantica dell’Italia rappresentano una garanzia anche per gli Stati Uniti e la Nato dopo le pressioni statunitensi delle settimane scorse: una lettura forse superficiale dell’accordo Italia-Cina potrebbe far dire che, se qualcosa è stato firmato, significa che gli argomenti più rischiosi sono stati accantonati. Bisognerà quindi capire, per esempio, le conseguenze dell’inserimento dei porti di Genova e Trieste come terminali della Via della Seta: dallo staff del consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, dissero al Corriere della Sera che se la Cina costruirà infrastrutture in quei due porti, il governo americano non vi avrebbe più consegnato “materiale sensibile”.
LA POLITICA INTERNA
La Cina è stata solo l’ultimo argomento che sta evidenziando una spaccatura sempre più netta tra Lega e M5S. Di Maio vanta intese da 2,5 miliardi di euro per le imprese italiane valutando il potenziale in 20 miliardi; Matteo Salvini ribatte con “non si dica che la Cina è un libero mercato”; Di Maio stizzito controreplica: “Lui ha il diritto di parlare, io il dovere di fare i fatti come ministro dello Sviluppo economico”. Se non volano i piatti, ci manca poco. Il giorno prima, del resto, il ministro dell’Interno aveva rivendicato la competenza sulla sicurezza a fronte di una non meglio specificata strategia di sicurezza nazionale in stile americano auspicata da Di Maio. È palese il tentativo del capo politico del Movimento, che ha un disperato bisogno di voti, di intaccare le rendite di posizione leghiste sia sul fronte imprenditoriale, con gli accordi cinesi, sia sui temi della sicurezza. Salvini, inoltre, sa di dover ormai competere con due “avversari” visto che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, da tempo ha smesso i panni del mediatore per schierarsi a fianco di Di Maio e ha definito l’accordo sulla Belt and Road Initiative “una grande occasione” per l’Italia con la garanzia della “massima reciprocità”.
Lo scontro tra gli alleati di governo, che sarà sempre più aspro fino alle elezioni europee, vede un osservatore apparentemente distaccato: il Pd. Sia il neosegretario Nicola Zingaretti che la componente renziana non si sono esposti con posizioni chiare su quanto avvenuto. E’ vero che due anni fa l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a Pechino avviò i colloqui e del resto nessuno nega, né allora né oggi, l’importanza di buoni rapporti economici con il gigante cinese. È anche vero che un personaggio di peso come Romano Prodi, che conosce benissimo la Cina e che dal 2010 insegna alla China Europe International Business School di Shanghai, si è espresso a favore dell’accordo commerciale sostenendo che “l’Italia deve svegliarsi”. Fatto sta che Zingaretti, che con Prodi si è consigliato prima di intraprendere il cammino di leader democratico, si è limitato a parlare di pasticcio del governo e che i gruppi di Camera (con il capogruppo renziano Andrea Marcucci) e Senato abbiano sollecitato Di Maio a coinvolgere il Parlamento prima di firmare. Poca roba: per ora l’opposizione di sinistra sembra concentrata sull’immigrazione e sul rilancio dello ius soli. Per la Cina si vedrà.