Secondo un editoriale informato, pubblicato sul Washington Post a firma di Josh Rogin, il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo nelle prossime ore dichiarerà chiusa la stagione dei waivers con l’Iran. Ossia, l’amministrazione Trump dal 2 maggio chiuderà il sistema di concessioni previsto per otto paesi cui nel novembre scorso era stato lasciato il permesso – per sei mesi – di avere ancora relazioni commerciali con Teheran sul petrolio.
L’informazione che due funzionari del dipartimento di Stato hanno passato a Rogin, fonte autorevolissima, è stata confermata a stretto giro anche da altre fonti dell’Associated Press, e (come succede di solito davanti a queste notizie importanti) via via da altri media americani. Soprattutto, non è stata smentita dall’amministrazione statunitense.
Gli otto paesi interessati sono Grecia, Taiwan, Cina, India, Turchia, Giappone, Corea del Sud e Italia. Di questi, tre, Grecia, Taiwan, Italia, hanno portato praticamente a zero i propri acquisti di petrolio iraniano rispettando le richieste di Washington. La politica delle zero importazioni è nata con Pompeo: il piano è portare a essere nulle le vendite di petrolio, come ha ricordato mercoledì Frank Fannon, assistente del segretario di Stato per le risorse energetiche, così da isolare economicamente l’Iran. In questo modo Teheran non potrà investire soldi nei progetti di destabilizzazione di cui è accusato dagli Stati Uniti e dagli alleati regionali.
Le esportazioni di petrolio iraniane sono aumentate all’inizio del 2019 e poi sono crollate a marzo, forse perché i vari paesi si sono riforniti prima del taglio previsto da Washington. Attualmente le esportazioni complessive da Teheran sono di un milione di barili al giorno (secondo i dati Refinitiv Eikon, forniti dalla Reuters), ossia meno delle metà di quelle dell’aprile del 2018, il mese prima di quando Donald Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dal Jcpoa l’accordo sul nucleare iraniano deciso dal sistema multilaterale “5+1” nel 2015 per congelare il programma atomico militare della Repubblica islamica.
Trump era uscito da quell’intesa non perché l’Iran non la stava rispettando – c’erano certificazioni continue che almeno formalmente il governo di Teheran stava proseguendo nell’implementazione del deal – ma perché riteneva che mancasse lo “spirito”. In particolare accusava gli ayatollah di continuare a spingere una politica di influenza subdola nella regione mediorientale, attraverso partiti/milizia anti-occidentali, fondamentalisti e anti-semiti, controllati e finanziati. Nonché accusava l’Iran di violare precedenti risoluzioni Onu in base alle quali non avrebbe dovuto continuare il suo programma di missili balistici (per Washington invece gli iraniani continuavano segretamente gli studi, così da aver già confezionati i vettori su cui montare le testate una volta cessati i termini previsti dal Nuke Deal).
Due argomenti che non c’entrano direttamente col Jcpoa, ma che per Trump dimostravano la malafede con cui Teheran si comportava. L’uscita dall’accordo aveva riportato in funzione tutte le sanzioni precedentemente eliminate, soprattutto quelle che avevano come obiettivo l’export del petrolio.
A quel punto, la concessione delle esenzioni, waivers, era stata studiata non tanto per ragioni di amicizia con quei paesi interessati, quanto per evitare di destabilizzare di botto il mercato petrolifero in un momento delicato. Ora che la domanda è tornata a essere minore dell’offerta, con un trend previsto tale per il 2019 (col petrolio che ha ritoccato prezzi sopra i settanta dollari), come ha spiegato il rappresentate speciale americano per l’Iran, Brian Hook, per l’amministrazione Trump è arrivato il momento di chiudere del tutto i rubinetti e attivare la strategia di massima pressione prevista dallo “zero-export” – a questo progetto si legano anche le continue richieste di aumentare le produzioni fatte da Trump all’Opec.
Ci sono alcuni segnali che il piano di Pompeo sta avendo qualche effetto. L’Iran non è stato in grado di consegnare petrolio alla Siria da gennaio a causa dell’applicazione internazionale delle sanzioni, ha scritto il Wall Street Journal il mese scorso, e questo è un elemento che ha aumentato la pressione statunitense sul sanguinoso regime di Bashar al-Assad rais che l’Iran ha salvato dalla detronizzazione durante la guerra civile e con cui conserva un debito di sangue (il conto che Teheran ha presentato a Damasco è chiaro: l’Iran vuole usare la Siria come proiezione verso il Mediterraneo e trasformarla in una piattaforma militare al centro del Medio Oriente, a due passi da nemici come Israele e Arabia Saudita).
A marzo, Pompeo ha anche parlato di come la carenza di liquidità segnalata da Hezbollah – partito-milizia sciita fedele agli ayatollah di Teheran con cui gli iraniani lavorano all’interno del sistema politico ed economico libanese – sia un’ulteriore prova del fatto che le casse dell’Iran stavano iniziando a subire la pressione della riduzione dell’export. Per Pompeo questo starebbe portando risultati positivi per la sicurezza regionale.
Il progetto di arrivare a sigillare i rubinetti petroliferi alla Repubblica islamica è però piuttosto difficile da raggiungere al momento, perché la Cina e l’India conservano ancoro aliquote commerciali importanti sul greggio iraniano e sono paesi con cui gli Stati Uniti sono in un rapporto complesso. Lo stesso dicasi per la Turchia che non più tardi di una settimana fa esprimeva l’aumento dell’esenzione come auspicio (i turchi sono collegati all’Iran dal sistema Astana, con cui stanno trattando insieme alla Russia la crisi siriana, e hanno relazioni incrinate con gli Usa).
Giappone e la Corea del Sud sono invece diventati relativamente meno dipendenti. Secondo le informazioni di Rogin, Washington ha già in mente un meccanismo di compensazione tramite due paesi alleati, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con cui sopperire alle mancanze delle quote iraniane negli stati interessati dalle esenzioni. Riad e Abu Dhabi sono, insieme a Israele, i migliori alleati americani in questo momento, e tutti e tre i paesi condividono con Washington una posizione molto dura riguardo all’Iran.
Formiche.net ha provato a contattare il ministero dello Sviluppo economico per un commento sulla notizia, ma per ora non ha ricevuto risposta. Nei giorni scorsi, il ministro Luigi Di Maio, vicepremier e titolare del MiSE è stato in visita negli Emirati dove ha avuto contatti finalizzati al business, ma anche avuto un incontro con Sultan Al Jaber capo della Abu Dhabi National Oil Company, l’Adnoc, il gigante petrolifero emiratino con cui l’Eni ha ultimamente stretto la collaborazione.
Domenica, negli Stati Uniti, il dossier Iran è stato al centro di un altro scoop, firmato da Jonathan Swan del sito Axios, secondo cui durante una riunione a porte chiuse con i leader della comunità iraniana-americana lo scorso lunedì, il segretario Pompeo ha detto che comunque l’amministrazione Trump “non intende compiere un‘azione militare all’interno dell’Iran”. Pompeo ha anche distaccato la sua figura e quella del presidente dal Mek, il gruppo politico di opposizione iraniana che gli Usa considerano terroristico, con cui invece hanno avuto rapporti l’avvocato di Trump, Rudy Giuliani, e il Consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton.