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Bravo Sanchez, ma ora a Madrid c’è più confusione che a Roma

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La complessità cui andrà incontro chiunque vorrà provare a formare un governo (a cominciare dal bravo ed energico leader del Psoe Sanchez) dopo il voto di ieri è già oggetto di dibattito dentro e fuori l’Europa.

Di certo comunque la soluzione non sarà semplice da trovare ma, soprattutto, metterà la politica spagnola di fronte ad una realtà sostanzialmente inedita per Madrid, cioè le (inevitabili) dinamiche di coalizione.

L’aspetto più interessante del voto è infatti nell’accentuarsi di una frammentazione dell’elettorato, fenomeno assai recente da quelle parti. I numeri a questo proposito parlano chiaro, senza avere bisogno di andare troppo indietro nel tempo (l’evidenza sarebbe ancora più eclatante in quel caso).

Nel 2008 il Psoe di José Luis Rodríguez Zapatero vince le elezioni con un robusto 44 % di consensi, che consente una navigazione autonoma per l’intera legislatura al primo ministro. Proprio Zapatero però decide di anticipare il rinnovo delle Cortes di qualche mese rispetto alla scadenza naturale, convocando i comizi elettorali per la fine di novembre del 2011. Ne esce trionfatore il Partito Popolare di Mariano Rajoy Brey con il 45 % dei voti, garantendogli così 4 anni di governo.

La situazione si complica nel 2015, perché l’irrompere sulla scena di Podemos mette in crisi il consolidato bipolarismo spagnolo, facendo esplodere tutte le contraddizioni di un sistema politico non solo ormai ingestibile con i vecchi schemi, ma anche duramente messo in discussione da istanze autonomiste ormai fuori controllo, poiché a quella tradizionale dei Paesi Baschi si aggiunge quella (ben più robusta) della Catalogna, che sta a Madrid come la Lombardia a Roma.

Di fatto la politica spagnola impazzisce, come una maionese sfuggita allo chef.

Si torna così a votare dopo un anno, con esito di vantaggio relativo per i popolari e Rajoy di nuovo primo ministro (siamo al 2016). Mentre l’economia nazionale segna netti progressi la situazione politica invece rimane nella tempesta.

Nell’autunno del 2017 scoppia la crisi catalana, con un referendum per l’autonomia che Madrid dichiara illegale, cui seguono decine di arresti che portano in galera (dove sono tutt’ora) quasi tutti i leader locali, compreso Oriol Junqueras di Esquerra Republicana de Catalunya, ancora oggi dietro le sbarre da dove ha guidato (con ottimi risultati) la campagna elettorale del suo partito.

Pochi mesi dopo Rajoy si dimette, con brutale voto di sfiducia del Parlamento ( siamo a giugno 2018), a seguito di uno scandalo per finanziamenti illeciti al suo partito.

Va al governo proprio Sanchez, che però a fine anno si vede bocciata la legge di bilancio, con conseguente inevitabile ritorno alle urne (da cui il voto di ieri), per la terza volta in quattro anni.

Ma gli spagnoli evitano di scegliere il ritorno alla stabilità politica e, se possibile, accentuano la confusione. Infatti la somma dei consensi di Psoe e PP è arrivata ieri al suo minimo storico (28+16=44, cioè i voti che prendevano da soli, in alternanza, meno di dieci anni fa) e, per giunta, si affolla la lista di soggetti nuovi o nuovissimi presenti in Parlamento, poiché oltre a Podemos e Ciudadanos arriva alle Cortes anche Vox, forte di un 10 % assai battagliero e tutto spostato a destra.

A tutto ciò si aggiunge l’ottimo risultato degli indipendentisti catalani e baschi, con evidente effetto di aggiungere ulteriore complessità a quella (già quasi ingestibile) tra i cinque partiti più votati.

Insomma Madrid esce dalle urne con un giovane e brillante leader di sinistra come Sanchez che ha dimostrato talento e carattere (soprattutto verso i “vecchi” del suo partito), ma con una situazione al cui confronto le dinamiche italiane a tinte giallo-verdi potrebbero apparire un’oasi di pace.

 

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