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L’ingaggio Cina-Usa è strategico e globale. Ancora un caso nel Mar Cinese

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La possibilità che gli Stati Uniti raggiungano un accordo con la Cina sul piano del commercio non deve distogliere l’attenzione dalla dimensione del confronto globale e strategico che le prima due potenze del mondo hanno ingaggiato. E ci sono dettagli che spiegano perfettamente come il piano dei trade talks portati avanti da mesi a fatica, con le delegazioni in continuo viaggio sulla rotta Washington-Pechino, non coincida affatto con quello di altri dossier sensibili in cui americani e cinesi si trovano in netto contrasto.

Anzi, in alcuni casi gli uni e gli altri utilizzano determinati territori come ambito di sfida. È il caso per esempio del Mar Cinese: una fascia acquatica ricca per la pesca e per le risorse naturali sui fondali, nevralgica perché passaggio di miliardi di chilogrammi di carichi commerciali, ma soprattutto argomento a cui Pechino tiene particolarmente dal punto di vista politico.

E non è tanto il significato storico o quello economico il motivo per cui la Cina rivendica la propria sovranità sull’area: per il governo cinese vincere la partita su quel gruppo di isolotti apparentemente insignificanti è fondamentale per la sua proiezione globale. Quale deterrenza potrebbe rappresentare una potenza che non riesce a risolvere – con la diplomazia, con l’economia, con la forza – una pratica nel suo giardino di casa?

Gli americani sono perfettamente coscienti della situazione, e per tale ragione cercano di stuzzicare Pechino. Washington vuol farsi portatore delle ragioni del diritto internazionale, per questo ufficialmente manda navi a solcare il mare tra gli isolotti davanti alla Cina. Missioni che chiama tecnicamente Fonop, acronimo che indica la libertà di navigazione in acque internazionali, che però per la Cina sono sotto la propria territorialità (c’è una controversia di diritto difficile da concludere). Washington con i Fonop rimarca la sua presenza nell’area, sostiene gli alleati evitando derive pro-cinesi, manda un segnale di pronto ingaggio se eventualmente le problematiche dovessero salire di livello.

Nei giorni scorsi è toccato alla nave da assalto anfibio “Uss Wasp”, proprietà del corpo dei Marines, solcare le acque del Mar Cinese Meridionale. Contesto: le annuali esercitazioni militari congiunte di Stati Uniti e Filippine: “Balikantan” si chiamano, partecipano 4mila militari filippini, 3.500 statunitensi e anche 50 australiani.

La nave americana, con almeno dieci pezzi del cacciabombardiere F-35B (versione a decollo corto e atterraggio verticale) messi ben in mostra sul ponte, ha simulato una operazione di sbarco anfibio su una spiaggia delle Filippine, non distante dalle Scarborough, isolotti contesi da Manila, Taiwan e Pechino.

La Cina protesta, definisce certe attività una provocazione inutile che altera l’equilibrio della zona, ma intanto ha militarizzato – con opere ingegneristiche d’avanguardia – diverse di quelle lingue di terra. Come ha spiegato Zack Cooper, research fellow dell’American enterprise institute (Aei) in un’intervista di Francesco Bechis pubblicata su queste colonne, “la manovra americana lancia un segnale inequivocabile per spiegare a Pechino che reclamare la sovranità su quel territorio sarebbe una manovra molto rischiosa”.

(Foto: US Navy, gli F-35 sul ponte della Wasp nel Pacifico)

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