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Conte in Cina? Ecco la risposta americana (cartellino rosso)

È piuttosto interessante notare che mentre il premier italiano Giuseppe Conte è in visita a Pechino per partecipare al Forum internazionale sulla Nuova Via della Seta – come leader dell’unico paese del G7 firmatario di un memorandum d’adesione all’infrastruttura geopolitica cinese – l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma rilanci su Twitter un video studiato dal dipartimento di Stato per spiegare come l’iniziativa, che Xi Jinping promuove come il “progetto del secolo”, sia piena di costi e rischi.

I contenuti del video prodotto da Share America – programma comunicativo con cui il dipartimento condivide le policy governative su macro-questioni internazionali – sono ben noti. Si parla di trappola del debito, pressioni politiche, “opacità”, “corruzione”, tutte critiche contro cui lo stesso Xi all’apertura del forum pechinese s’è dovuto schierare sulla difensiva, per trasmettere fiducia all’esterno (ma attenzione: l’apparente ritirata di Xi, molto meno autocelebrativo di due anni fa, quando nello stesso contesto spingeva al massimo il progetto, è anche una necessità propagandistica dal valore tattico; collegata anche al fatto che il presidente deve tornare a occuparsi di più di Cina, interna, che della sua proiezione esterna; sono i cinesi che glielo chiedono).

Ma al di là dei contenuti, l’interesse sta proprio in quella tempistica, perché significa che l’ambasciata americana non ha lasciato spazi di complicità sulla visita di Conte – che pure in questi giorni, e come fa da quando il suo governo ha aderito alla Belt & Road Initiative (Bri, definizione internazionale della Nuova Via della Seta) ha cercato di sottolineare come la presenza italiana all’interno sia tutt’altro che un problema ma anzi sarà una sorta di garanzia di un funzionamento più trasparente dell’enorme progetto cinese.

L’ambasciata però non solo rilancia la grafica interattiva contro la Bri, poi condivide anche un tweet di Morgan Ortagus, portavoce del dipartimenti di Stato, che a sua volta denuncia che 15 paesi di quelli che hanno aderito al piano cinese sono già a rischio indebitamento, e di questi sei sono europei. #DebtTrap è l’hashtag che usa il cuore della diplomazia americana, con la funzionaria di alto livello che linka un report del Center of Global Development che ha studiato la vulnerabilità di certe situazioni.

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Non solo: il 26 aprile, giorno in cui il premier Conte è arrivato a Pechino, l’ambasciatore statunitense Lewis Eisemberg è andato a Genova (per la prima volta dall’inizio della sua missione) per incontrare il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale, Paolo Emilio Signorini e il sindaco Marco Bucci. La visita non è certo casuale: sabato 23 marzo, durante la cerimonia di firma dei trattati bilaterali tra Italia e Cina nell’ambito dell’adesione alla Bri, c’era anche Signorini a siglare, insieme a Bucci nelle vesti di commissario straordinario per la ricostruzione del Ponte Morandi, un accordo di cooperazione con la China Communication Construction Company (CCCC).

La Quattro C – che sul Morandi aveva avanzato un’offerta battuta da Salini-Fincantieri – è una società cinese, statale, specializzata in infrastrutture portuali. Genova è al centro degli interessi di Pechino perché potrebbe diventare uno dei principali terminal marittimi della Bri. Si tratta di un hub strategico per l’Italia (un’idea delle dimensioni: nel suo complesso rappresenta il 25 per cento del gettito nazionale sulle importazioni, con circa 2,2 miliardi di euro annui). Eisenberg, che ha svolto un ruolo identico a quello di Signorini per New York e New Jersey (ai tempi del 9/11), era nel capoluogo ligure con più di un interessamento quindi.

Il pattern contro Pechino è articolato e tocca vari argomenti che l’Italia non può ignorare. Sempre Ortagus per esempio, e sempre ieri, ne ha sottolineato un altro: “Gli Stati Uniti possono partecipare solo a reti 5G affidabili – ha scritto ancora su Twitter – Accogliamo con favore le decisioni dei nostri alleati come l’Australia e il Giappone di escludere dalle loro reti 5G le apparecchiature prodotte da venditori inaffidabili provenienti da nazioni contraddittorie”. Canberra e Tokyo hanno seguito il consiglio americano, e sono tra quei paesi che hanno deciso di escludere la Cina dai fornitori delle apparecchiature per dati di ultima generazione, il 5G appunto, considerato attualmente il massimo avanzamento tecnologico nel campo internet.

Sul tema invece l’Italia ha avuto un atteggiamento non chiarissimo: mentre il governo ha più volte dichiarato di aver messo al riparo le strutture – anche perché Washington minaccia di tagliare gli scambi di intelligence, ossia di tutto quel pacchetto di informazioni vitali che tiene in piedi uno stato – ci sono stati segnali che anche le telecomunicazioni potrebbero entrare a far parte dei settori di cooperazione con Pechino legati all’adesione alla Bri.

Il forcing statunitense anti-Cina, in questi giorni in cui Pechino ha concentrato su di sé diversi leader di stato e di organizzazioni internazionali (Onu, Fmi, Banca Mondiale), è ampio e intenso: per esempio ne fa parte anche un op-ed per Foreign Policy firmato dal direttore dello USAID Mark Green in cui la Bri viene messa a confronto col programma del dipartimento di Stato per il sostegno allo sviluppo di altri paesi.

La Cina rischia di gravare le nazioni con debito facendole diventare dipendenti attraverso accordi predatori, invece gli Stati Uniti con lo USAID aiutano i paesi ad adottare le necessarie riforme per raggiungere l’autosufficienza e la prosperità, dice in sintesi Green (USAID è il programma che per esempio nei giorni scorsi ha spedito viveri in Mozambico, colpito da un ciclone: il materiale dell’agenzia statunitense era stoccato alla base di Camp Darby, Pisa).

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