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Le vecchie regole del Def o una scelta non convenzionale?

Che tutta la procedura, che regola la sessione di bilancio, sia malata di barocchismo è un dato più volte denunciato. Questa volta, tuttavia, complice il clima pre-elettorale e la crisi finanziaria in atto, si è raggiunto l’apice dell’assurdo. Con un susseguirsi di proposte e contro proposte che non hanno alcunché di realistico, ma mirano solo alla pancia dei singoli elettori. Il Def  appena licenziato dal governo è poco più di una scatola vuota. Le stesse previsioni di base, che in passato potevano rappresentare un punto di riferimento, sono state stravolte dalla logica della comunicazione. Non si è minimamente pensato ad un loro possibile tasso di realismo, ma solo se potevano risultare più o meno plausibili agli occhi di un’opinione pubblica sempre più disincantata.

Quindi un documento sostanzialmente inutile. Per quasi tutti, ma non per la Commissione europea, che vi vedrà l’ulteriore dimostrazione della non affidabilità italiana. Anche se il ministro dell’economia, Giovanni Tria aveva fatto di tutto per catturarne la relativa benevolenza. Per la verità un copione già visto e sfruttato. Nella precedente Nota di variazione al Def dello scorso anno, lo stesso Tria, in una serie di riunioni più o meno riservate, aveva concordato un possibile deficit di bilancio intorno all’1,6 per cento. Poi Luigi Di Maio e l’exploit sul balcone di Palazzo Chigi nell’inno alla definitiva sconfitta della povertà, grazie ad un maggior deficit di bilancio del 2,4 per cento. Grande sconcerto comunitario; nuova concertazione, questa volta, con Giuseppe Conte ed alla fine il piccolo compromesso del 2,04 per cento. Nella legittima presunzione di una cifra scritta sulla sabbia.

Nel secondo round dei rapporti inter comunitari lo schema si ripete. Tria, incontrando Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis durante i lavori di Ecofin, assicura moderazione per quanto riguarda i conti italiani. Torna a Roma ed illustra ai suoi principali colleghi di governo i risultati raggiunti. L’Europa – assicura – benché sia preoccupata, comprende tuttavia le ragioni italiane. Dobbiamo, quindi, essere responsabili. Termina la riunione. I giornali si dilungano sul ritrovato clima di serenità. Ma ancor prima che l’inchiostro degli editoriali si sia asciugato, ecco irrompere la proposta. La flat tax, anzi la tassa piatta, come dice Matteo Salvini, a scanso di ogni equivoco terminologico si farà. Politicamente spiazzato, risponde Luigi Di Maio: non deve premiare i ricchi ma solo il ceto medio il cui reddito sia compreso nella fascia tra gli 8 ed i 50 mila euro. Per l’Europa queste distinzioni contano poco. L’Italia non ha i soldi per affrontare impegni già presi (reddito di cittadinanza, pensioni, Iva ed accuse, spese indifferibili ecc.) per un importo che sfiora i 40 miliardi di euro, come può pensare di mettere ulteriore legna sul fuoco?

Questa volta la reazione non si è fatta attendere. Complice il fatto che a Washington è in corso la riunione del Fondo Monetario al quale partecipano tutti i big del Gotha finanziario. Ha cominciato Moscovici che chiede il rispetto delle regole europee e teme che l’Italia possa, altrimenti, contagiare l’intera Europa. Rincara la dose Dombrovskis, che le rimprovera di non aver seguito i moniti europei e quindi di essere sprofondata verso il peggio. Quindi è stata la volta di Christine Lagarde, che ha solo cercato di attenuare diplomaticamente, le critiche piovute dai suoi tecnici sul bagnato dell’Italia. Previsioni di crescita ancora peggiorate: ora è 0,1 per cento. Infine lo stesso Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia che, di fronte a quel diluvio, non ha potuto molto.

Questo quindi il quadro di una situazione che più complicata non si può. Si poteva fare qualcosa di diverso invece che seguire stancamente il rito di una tradizione, che rischia di risultare più che stucchevole? Negli anni passati (1962) fu Ugo La Malfa a dire che il re era nudo. Lo fece presentando quella “Nota aggiuntiva” che voleva costringere tutti i suoi interlocutori a misurarsi con la crisi del Paese. Oggi ci vorrebbe qualcosa di simile. Avere il coraggio di dire: Signori, l’Italia è un paese spaccato a metà. C’è l’eccellenza produttiva al nord, che macina attivi della bilancia dei pagamenti – ancora il 2,5 per cento fino al 2022 secondo le previsioni del Def – mentre nel resto del Paese è solo una lenta agonia. Non possiamo reggere a lungo. Questa divaricazione economica, finanziaria, ma anche sociale, a lungo andare, metterà in discussione la stessa unità nazionale. Altro che sovranismo! Per evitare il peggio dobbiamo, quindi, cominciare a pensare in modo non convenzionale, perché le vecchie ricette non hanno funzionato. Aiutateci quindi ad individuare la strada vera da percorrere ed insieme decidiamo il da farsi. Troppo complicato? Forse. Ma almeno c’è una speranza. L’alternativa, come cantava Franco Califano, è invece solo noia.


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