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Il grande gioco del risiko dopo il fallimento dell’accordo Deutsche Bank-Commerzbank

Nei mesi passati ci si poteva consolare guardando alla Grande Germania. In Italia erano fallite un pugno di piccole banche locali (Banca Marche, Carichieti, Cariferrara, Banca Etruria) mentre la crisi di Mps sembrava non vedere luce. Nel Paese di Angela Merkel e nel regno del rigore finanziario erano invece i due colossi Deutsche Bank e Commerzbank a navigare in cattive acque. Non certo piccoli istituti locali, ma organizzazioni blasonate che avevano segnato la storia di quel Paese.

La prima, in particolare, era nata nel 1870, come vero e proprio atto di indipendenza nei confronti delle banche inglesi e francesi che allora dominavano la scena ed imponevano agli importatori ed esportatori condizioni capestro. Attualmente la Deutsche Bank è uno dei principali gruppi bancari mondiali, con sedi nei quattro continenti. Ed una grande attività specie nel comparto dei derivati, dalla cui forte esposizione – almeno così si diceva – era nata la necessità di un merger con la Commerzbank, per diluire il peso delle perdite relative. Quest’ultima, a sua volta, è la seconda grande banca tedesca. Anch’essa carica di storia, non solo perché fondata nello stesso anno: il 1870. Ma perché fin dall’inizio depositaria di un metodo, che fu elemento determinante dello sviluppo industriale non solo tedesco. Ma italiano. Fu una banca sempre attiva nel finanziamento delle attività produttive, in grado di assistere le imprese non solo dal punto di vista finanziario, ma di sostenerle, in una prospettiva di più lungo periodo. Al punto da dar luogo a quel “modello renano” – la sede della banca è a Francoforte sul Meno – che ha sempre qualificato il tipo di sviluppo del capitalismo tedesco. Così diverso da quello anglosassone o dal colbertismo francese. In Italia la nascita della Banca Commerciale, che sarà guidata da Raffaele Mattioli, fu appunto un’emanazione della Commerzbank.

La loro dimensione non era tuttavia sufficiente a sostenere le sfide di un mondo globalizzato. Da qui l’ipotesi di un merger, che potesse creare un grande campione nazionale, in grado di reggere il confronto con i grandi colossi internazionali: soprattutto americani e, in prospettiva, cinesi. Ipotesi vista con favore dall’establishment politico tedesco ed in particolare dal ministro delle Finanze Olaf Scholz: deciso a prendere con una fava due piccioni. Superare le debolezze delle due banche, riflesso della coda velenosa della crisi del 2007/08 e costruire una tecnostruttura in grado di supportare un’economia, come quella tedesca, che è sempre più internazionalizzata. Con centri di produzione diffusi in mezza Europa e poi coordinati dalle grandi centrali che hanno sede a Stoccarda o Francoforte.

Non è riuscito. Quel disegno è naufragato dopo giorni e giorni di trattativa tra i vertici delle due banche. Colloqui avvenuti, apparentemente, senza alcuna interferenza esterna. Ma sulla base di un calcolo che prescindeva completamente dal disegno strategico ch’era alla base di quella visione. La forza, ma anche il limite di un capitalismo che è abituato a compiere passi non più lunghi della propria gamba. E a sacrificare tutto di fronte al conto del dare e dell’avere. Secondo le indiscrezioni della stampa, l’operazione avrebbe richiesto un’iniezione di circa 10 miliardi. Cifra che gli attuali azionisti hanno ritenuto eccessiva. E alla quale lo Stato tedesco, per i vincoli imposti dalle regole europee (sostenute soprattutto dai tedeschi), non ha potuto partecipare. Sorprendente inveramento della legge del contrappasso.

Al rinvio ha contribuito (poteva mancare?) il parere contrario degli stessi sindacati, preoccupati per la prospettiva degli esuberi, che il merger avrebbe comunque determinato. Il risultato finale è stato un richiudersi in se stessi. Non che le preoccupazioni sindacali fossero infondate. Si doveva tuttavia decidere su un progetto che avrebbe integrato due diverse specialità – quella più finanziaria di Deutsche Bank e quella più produttivistica di Commerzbank – creando una struttura in grado di affrontare meglio i problemi di un possibile domani. Si è scelta invece la linea di minore resistenza. Le cui conseguenze sono ora tutte da decifrare.

La borsa ha reagito in modo contraddittorio. Ha premiato Deutsche e penalizzato Commerzbank. La prima ha una situazione patrimoniale migliore. Chiuderà, a quanto sembra, il primo trimestre dell’anno con un utile di circa 200 milioni e 6,4 miliardi di ricavi. Di cui oltre la metà (3,3 miliardi) generati dalla divisione Corporate & Investment banking: a dimostrazione di quanto fosse sviluppata l’attività nel campo internazionale della gestione dei vari portafogli. Ed una solidità di tutto rispetto, misurata da un Tier 1 ratio del 13,7 per cent. Che indica la solidità del patrimonio di garanzia.

Commerzbank torna, invece, nel mirino dei grandi predatori esteri, tra cui l’italiana Unicredit. Indiscrezioni su un’entrata in scena dell’istituto, guidato da Jean Pierre Mustier, erano trapelate nelle settimane scorse. L’idea di Unicredit sarebbe quella di fondere Commerzbank con la banca tedesca già controllata dal gruppo italiano, la Hypovereinsbank (Hvb). Un istituto acquisito nel 2005, fortemente radicato nel sud della Germania. Altri pretendenti alle nozze con Commerzbank, tuttavia, non mancherebbero. Nelle scorse settimane si era fatto il nome di Ing, Bnp Paribas e quello di Santander. Insomma il grande gioco del risiko, dopo il fallimento dell’accordo domestico, è appena iniziato. A dimostrazione del fatto che il denaro, come nel film di Oliver Stone, non dorme mai.


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