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Erdogan in caduta, perde Ankara e Istanbul

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Il minimo che si possa dire, a essere molto generosi, è che stavolta sia stato davvero fortunato. In altre parole, non fosse che stiamo parlando di un Paese musulmano, e che in questa storia di religione ce n’è tanta, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan dovrebbe andare ad accendere un cero in chiesa.

Il suo partito Akp, dopo questo voto amministrativo, rimane la prima forza politica del Paese, con il 45% dei consensi, ma perde pezzi importanti. Per prime, le due principali città della Turchia moderna: la capitale Ankara, ceduta dopo 18 anni di controllo assoluto al Chp, il partito laico e maggiore voce dell’opposizione, che ha vinto con tre punti di vantaggio. E Istanbul che, in bilico da ieri sera, dopo ore ad alta tensione per il testa a testa con l’ex premier Binali Yildirim, ha visto la vittoria del candidato dell’opposizione, Ekrem Imamoglu. Per Yildirim, che già dal tardo pomeriggio, aveva postato sui social foto in cui veniva ritratto mentre scriveva il suo discorso elettorale, deve essere stata davvero una brutta notizia. Ma non una sorpresa. Che le due principali città della Turchia moderna fossero in bilico lo si sapeva da settimane.

Ci sono però altre situazioni sulle quali vale la pena soffermarsi e sulle quali da oggi Erdogan dovrà riflettere obbligatoriamente se non vuole trovarsi in una condizione analoga a breve e senza la fortuna che ha avuto questa volta. L’Akp ha perso città importanti sulla costa mediterranea, come Adana, Antalya, Mersin e vicino alla capitale, prima fra tutte Eskisehir. Sono tutti luoghi con un comparto economico e industriale importante. Segno che, come scritto alla vigilia, il primo avversario del Capo di Stato in queste elezioni si è chiamato economia. Ed è un nemico con cui Erdogan non era abituato a combattere, per il semplice fatto che, almeno fino al voto del 2015, lo ha avuto dalla sua parte. Poi è arrivato il referendum del 2017 e il voto presidenziale e politico del 2018. Ma lì Erdogan giocava in casa, perché si trattava di consultazioni dove il suo carisma contava più di altri fattori.

Questa volta, oltre a non essere direttamente coinvolto, pur avendo preso parte attiva alla campagna elettorale, il presidente si è trovato a fare i conti con una situazione economica già non facile e pesantemente aggravata dalla crisi valutaria partita nello scorso agosto e dalla quale la Turchia non si è più ripresa. I suoi appelli a non fare vincere le potenze straniere, che volevano mettere la mezzaluna in un angolo, sono servite solo fino a un certo punto.

Il Chp, il Partito repubblicano del Popolo, può festeggiare un risultato senza dubbio molto positivo. La brutta notizia è che la maggior parte dei nuovi voti che hanno acquisito, sono voti di gente preoccupata per l’economia, ma non necessariamente stanca del pensiero di Erdogan o preoccupata per la tenuta democratica del Paese. I laico-repubblicani hanno tenuto la costa egea, regione in cui sono tradizionalmente in maggioranza, hanno preso importanti posizioni in quella mediterranea, ma soprattutto hanno aperto piccole brecce in Anatolia. Nelle regioni in cui si è votato Chp si concentra il 72% dell’economia turca e l’85% dei libri venduti. Anche in città dove fino a pochi anni fa una presenza dell’opposizione sarebbe stata impensabile, sono stati raccolti i primi, timidissimi consensi. Spetta ora ai repubblicani sapere sfruttare questo vantaggio e fidelizzare un elettorato che votava Erdogan per convenienza ma che ha anche sperimentato una stagione di crescita economica difficilmente eguagliabile. Per questo, la prima mossa del Chp, dovrà essere accreditato presso quel tessuto economico che non lo ha mai considerato un’alternativa praticabile.

La brutta notizia, per tutti, è che chi vota Akp è un elettorato sempre più radicalizzato e religioso, ormai saldamente abituato ad avere la sua posizione e importanza sulla scena politica turca, alla quale non rinuncerà tanto facilmente.

Un discorso a parte meritano i curdi, che non hanno candidato esponenti nelle grandi città, per concentrarsi sul sud-est, dove sono riusciti a mantenere Diyarbakir e Van, ma hanno perso Sirnak. La flessione di voti c’è stata, ma si tratta di un risultato quasi miracoloso, se si pensa alle migliaia di militanti e simpatizzanti dell’Hdp (il partito curdo) in galera e le migliaia di persone che sono scappate dalle loro case dopo la repressione dell’esercito del 2016, ufficialmente contro il Pkk, ma della quale hanno fatto le spese soprattutto la popolazione civile. A questo va aggiunto il fatto che l’Hdp non ha presentato candidati nelle grandi città, chiedendo di votare Chp e questa è una cosa della quale il Chp dovrà tenere conto anche per le sue politiche future.

E se a Istanbul, timidamente, si inizia a vedere di nuovo in giro qualche bandiera di Ataturk, da oggi Erdogan deve iniziare a porre rimedio a una situazione che potrebbe rivoltarglisi contro con estrema facilità. Le elezioni amministrative difficilmente possono influire sulla tenuta della sua leadership. Ma rappresentano un precedente grave. La riprova che quando le elezioni non sono un referendum sulla sua persona, l’Akp tentenna. E che la fede cieca nel suo operato, quando il portafoglio si svuota, inizia a recuperare qualche diottria, almeno in una parte della popolazione. Che però non è ancora sufficiente per giudicare Erdogan finito.



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