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Perché l’Europa non può tenersi fuori dalla sfida tech tra Usa e Cina. L’analisi di Scotti

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La bellissima iniziativa del “Giornale dell’Arte”, per il 185° anniversario dalla Fondazione della Giovine Europa di Giuseppe Mazzini, si inserisce in un dibattito sulla crisi di una Europa troppo concentrata sul proprio presente imminente. Una Europa che sembra aver dimenticato le “contraddittorie complessità” della sua storia nella dinamicità di un mondo in metamorfosi.

È difficile “recensire” i contributi “profondi” che qui si pubblicano, espressione di una “cultura viva” che dovrebbe animare la presenza europea sulla scena mondiale. Una presenza “politica” nel senso vero, dunque nobile, del termine. Mi limito a sottolineare, ben volentieri suggerendo la lettura attenta dei contenuti dei grandi esperti che hanno voluto accompagnare questa iniziativa, che l’Europa di oggi paga il prezzo di due “rivoluzioni” recenti: la prima è la caduta del Muro di Berlino (laddove crolla il sistema bipolare, prima di tutto nel cuore dell’Europa stessa) e la seconda è il Trattato di Maastricht.

Inevitabilmente, con la seconda “rivoluzione”, l’Europa fondata sulla “grande politica” (certo non priva di errori ma ricca di visioni) è diventata “l’Europa delle regole”, produttrice senza limiti di normative vincolanti che, per natura, altro non fanno che ascoltare loro stesse e imporsi “sulla” realtà, facendola de-generare. Gli autori e i curatori che hanno fortemente voluto questa riflessione (Francesco Scoppola, Gian Maria Vian, Daniela Ruzzanenti, che ringrazio) ci spingono verso e dentro una terza “rivoluzione necessaria”: l’Europa deve tornare alla politica attraverso la ri-scoperta (scoperta continua) delle sue antiche radici culturali.

È proprio l’esasperazione delle regole, in ogni campo, che ha fatto “dell’Europa che viviamo” un qualcosa di profondamente diverso “dall’Europa che siamo”. I grandi visionari, Mazzini in testa e – negli anni successivi – De Gasperi, Adenauer, Shuman ma anche Spinelli, Colorni e Rossi (con visioni più radicali) – ci hanno insegnato che la “grande politica” non può che fondarsi su visioni di società fondate sulla conoscenza e sulla condivisione dei “segni dei tempi”. Se, da un lato, val bene l’Europa delle differenze (stiamo insieme pur provenendo da storie diverse), il progetto complessivo europeo non può essere sacrificato sull’altare dei “nazionalismi” (male antico); a condizione, naturalmente, che l’Europa ri-trovi il suo essere “plurale” e non viva questo, com’è accaduto negli ultimi anni a opera di classi dirigenti che non esiterei a definire “miopi”, come un limite bensì come una ricchezza.

Nel guardare ai “segni dei tempi” che caratterizzano il nostro tempo, l’Europa appare impreparata, divisa, concentrata sulle regole e non si ri-flette in ciò–che–è. Il “Vecchio continente” è percorso da sfide ben rilevanti che ne chiedono il suo urgente ripensamento strategico.

Anzitutto, l’Europa manca di una leadership “esercitata”. Chi ha un ruolo forte, infatti, dovrebbe esercitarlo nel comune interesse europeo, rilanciando un nuovo posizionamento europeo nelle agende globali. È interesse di tutti i Paesi europei, soprattutto dei più forti, che l’Europa riacquisti credibilità internazionale e che ritorni a essere “soluzione” per costruire una cultura, e strategie, di “risposte globali a temi globali”; nessuna sfida della realtà nasce, si esaurisce, può essere affrontata e governata solo in una logica nazionale.

Si pensi, poi, alla sfida della Brexit. Ci si è illusi, con l’azzardo tipico della “democrazia diretta”, che “l’exit” potesse rappresentare una soluzione per migliorare le condizioni di vita della Gran Bretagna. Non esito a definire tale scelta, rivelatasi impossibile, come azzardata. Nel mondo di oggi, infatti, l’Europa ha bisogno di unità, di ri-trovarsi come soggetto, di non cadere nella tentazione della divisione che porterebbe ventisette “piccole patrie” a deragliare nel mare aperto della globalizzazione.

L’altra sfida decisiva è quella del Mediterraneo. Come non accorgersi, infatti, che oggi l’Europa è del tutto assente in quell’area sempre più centrale a livello di equilibri geopolitici? L’assenza dell’Europa, lo dico chiaramente, non è solo una colpevole rinuncia a scendere nell’arena dei rapporti di forza tra “player globali” ma è, soprattutto, il tradimento della propria storia.

Il Mediterraneo chiama l’Europa a un atteggiamento consapevole rispetto all’Africa che, come molte analisi ormai dimostrano, sarà – con l’Asia – il continente del futuro. Qualcuno lo ha capito dal punto di vista delle scelte strategiche: si tratta della Cina. Qui si incrocia l’altra sfida per l’Europa che, con la Presidenza Trump negli Usa e l’avanzata della Nuova Via della Seta, dovrebbe ri-trovare un posizionamento unitario per far fronte alle grandi spinte che, se separata, contribuiscono a renderla sempre meno rilevante. In questo quadro, rispetto al Mediterraneo e per renderlo “mare nostrum” e “mare pacis”, occorre che si sviluppi anche una visione rispetto all’America Latina, decisiva in un contesto globale in metamorfosi.

La sfida tra Usa e Cina, per il controllo delle nuove tecnologie, dovrebbe indurre l’Europa a non aspettare ancora. C’è bisogno, tra le tante cose, che l’Europa si doti di un piano chiaro di infrastrutture materiali e immateriali, accantonando dibattiti inutili sulle regole e privilegiando scelte politiche. Rispetto alla Cina, solo per fare un esempio, il nostro atteggiamento in Europa è diviso tra coloro che pensano a un “nuovo imperialismo”, alzando il livello della paura rispetto a un (presunto)

parlare con la Cina risolvesse una sfida che è globale, geopolitica.

Vorrei introdurre, in questo breve quadro di alcune sfide che riguardano l’Europa, la questione della geopolitica vaticana. Questo pontefice, così attento alle dinamiche che stanno percorrendo il mondo, credo avrebbe grande interesse a dialogare con un’Europa attenta alla propria storia e capace di maturare in sé una “cultura dei mondi” e una progettualità politica adeguata. Le scelte che Francesco sta facendo, infatti, chiamano i mondi a unità e comportano una tensione, e visioni, in grado di avviare “nuovi dialoghi”. Ciò che Raimon Panikkar chiama “religiosità” è ciò che riguarda il profondo di ogni uomo e di ogni sistema e ciò che li unisce; anche l’Europa deve tornare “all’anima della realtà (propria e globale)”.

Concludo dicendo che auspico un futuro dell’Europa come “Europa del progetto”. Per dirla à la Braudel, per capire cosa sta diventando, l’Europa deve conoscere chi è stata; questa è l’unica condizione per uscire da un presente imminente di divisioni per entrare in un presente storico di concrete possibilità.


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