Algeria, che accade? Non è difficile immaginare ciò che agita oggi il potere algerino, abituato a silenzi e segreti. Nel blocco politico-militare che governa il paese dall’indipendenza del 1962 (fatti salvo i pochi anni di Ben Bella), ci si chiede come spegnere la forza della piazza senza causare ulteriori danni. A differenza che nel passato (vedi 1988) non si vuole usare la violenza: è questa la decisione presa anche dall’alto comando militare. Ma allora che mezzi utilizzare? La promessa delle autorità di transizione è di andare alle elezioni presidenziali nel più breve tempo possibile (3 mesi). Ma la piazza non molla: nessuno si fida di un voto che certamente non si vuole sia “addomesticato”. D’altro canto il potere non ha nessun candidato disponibile, tanto meno un candidato convincente per i giovani e chi vuole libertà e democrazia. Se fosse esistito, sarebbe già saltato fuori, anzi: il quinto mandato a Bouteflika era stata una soluzione-ponte di ripiego proprio in assenza di unanimità su chi potesse succedergli.
Ma il vero problema è che nemmeno i partiti sono in grado di esprimere una candidatura di consenso, né fra di loro né con i manifestanti. Questi ultimi inoltre non hanno leader a disposizione e sembrano non volerne. Qui si concentra il dramma politico algerino: una “rivoluzione” senza leader (in questo simile alle altre primavere arabe di qualche anno fa) e un potere militare incapace di esprimerne uno. In Egitto è andata diversamente: la rivoluzione fu sequestrata dai Fratelli Musulmani che espressero una leadership debole (non era quella la loro prima scelta, ma tant’è) e i militari si ripresero il governo con una specie di golpe interno. Al Sisi infatti era stato nominato dai Fratelli come “generale pio”. In Algeria invece gli islamisti sono per ora silenti e non contano nel rapporto di forze in atto. Ma i partiti laici (che pure hanno una storia), sia quelli che durante la guerra civile degli anni Novanta furono per la riconciliazione, sia coloro che furono contrari, non riescono a mettersi d’accordo e – soprattutto – non hanno più molta presa sulla popolazione. In molti li considerano screditati perché durante i quasi 20 anni di Bouteflika hanno più o meno preso parte alla gestione della cosa pubblica.
La situazione di Algeri assomiglia quindi paradossalmente a quella del Sudan, paese in realtà diversissimo. Anche in quel caso i militari e la piazza si scrutano senza sapere da che parte andare. Si attende piuttosto un errore dell’avversario. Tale stallo non può durare. È probabile che in Algeria alla fine emerga un compromesso su un qualche candidato di uno dei partiti politici nazionali (FLN o RND). Si tratterà verosimilmente di un accomodamento insoddisfacente per entrambe le parti ma in grado di superare la fase attuale. La resa dei conti verrà così posticipata. Il prescelto (o la prescelta, ma è più difficile…) dovrà da una parte garantire gli interessi economici dell’esercito (e degli oligarchi ad esso legati), e d’altra parte aprire delle valvole di sfogo democratiche nella società. Si tratta di una scommessa azzardata: la libertà che la folla ha richiesto in tutte le manifestazioni del venerdì, possiede caratteristiche che ai militari non piacciono. Preferiscono di gran lunga una società tradizionale, un po’ sonnolenta e legata alle vecchie usanze, islamica conservatrice ma non radicale. Ma tale società non esiste più da tempo in Algeria, e nemmeno negli altri paesi del nord-Africa. Un vero e proprio cambiamento antropologico è avvenuto in questi anni – complice anche la globalizzazione – e gli islamisti sono stati i più rapidi a capirlo, anche se la discesa agli inferi jihadista che alcuni di essi hanno proposto non attira più. Si tratta ora di vedere quale islam ci sarà in Algeria, e quale il suo legame con la cultura e con la politica. Un “islam di mercato” come nel Golfo? Un islam moderno e laicizzato come vorrebbero i giovani? Un islam istituzionalizzato e conservatore? Una sola cosa è certa: si dovrà andare oltre l’alternativa impossibile tra jihad e autoritarismo militare.