“Non possiamo restare a guardare, con il Governo in perenne campagna elettorale. L’Italia esca dall’isolamento. Cerchi una intesa con la Francia, rassicuri i paesi vicini. E coinvolga gli Usa con cui nel 2015 abbiamo promosso la fragile stabilità di questi anni”. Lo scrive su Twitter Paolo Gentiloni, l’ex premier e ora presidente del Partito Democratico.
Gentiloni ai tempi del suo mandato aveva lavorato con Washington per buttare tutto il peso diplomatico possibile verso il tentativo di stabilizzazione promosso dall’Onu, avviato il 17 dicembre del 2015 con il Libyan Political Agreement, l’accordo per rappacificare il paese raggiunto a Skhirat (in Marocco) che ha portato Fayez Serraj alla guida del Governo di accordo nazionale.
Il tentativo mai implementato di riunire la Libia ha subito colpi e rallentamenti, ma mai come in questi giorni è stato a rischio di una frana definitiva. Con il generale freelance Khalifa Haftar, signore della guerra dell’Est libico, che sta marciando verso Tripoli, non solo il progetto onusiano è in bilico, ma il paese potrebbe scivolare in una devastante guerra civile con cui si distruggerebbe tutto quello che di buono ha fatto l’inviato speciale dell’Onu, Ghassan Salame, che aveva portato il paese a crescere del 4 per cento.
Alla richiesta di Gentiloni, per certi versi si allinea (in modo involontario, con tutta probabilità) l’attuale premier Giuseppe Conte, che ieri, intervenendo alla Camera, ha detto: “Non ci sfugge che questa crisi è frutto certamente di debolezze strutturali del contesto locale ma anche di influenze esterne che non sempre sono andate nella direzione della stabilizzazione”. Non ci sono indicazioni su chi possano essere quegli attori esterni a cui il capo del governo si riferisce, ma è noto che le posizioni e le mire di Haftar siano sponsorizzate con diverse sfumature da Emirati Arabi ed Egitto, ma anche Arabia Saudita, Russia e Francia.
(Nota a proposito di Parigi: da mercoledì sera girano informazioni non verificabili – oggi ne parla anche il CorSera – di un’azione di resistenza che la diplomazia francese starebbe facendo in sede europea per evitare dichiarazioni ufficiali Ue con sfumature troppo critiche nei confronti di Haftar. Qualsiasi ufficio governativo francese nega, parla di equivoci, di circostanze montate ad arte per fare scoop che non esistono. Tuttavia sulla faccenda s’è espresso anche il vicepremier Matteo Salvini: “Se ci fossero interessi economici dietro al caos in Libia, se la Francia avesse bloccato un’iniziativa europea per portare la pace, se fosse vero […] non starò a guardare. Anche perché le conseguenze le pagherebbero gli italiani”. Altra nota: secondo Repubblica, il 4 aprile, il giorno prima dell’inizio dell’offensiva tripolina, Saddam Haftar, comandante dei miliziani e uno dei figli del generalissimo, era a Parigi per chiedere sostegno informale. L’Eliseo precisa che sull’avanzata in realtà non c’è nessun coordinamento, ma “forte preoccupazione”).
Conte alla Camera ha fatto riferimento anche al rapporto crescente di interessi con Washington, attraverso cui l’Italia, dice, sta cercando di far pressione su Haftar per preservare “l’integrità di Tripoli”, e ha ricordato che “dobbiamo purtroppo costatare che talvolta la Comunità internazionale non riesce a inviare segnali univoci alle forze libiche, nonostante il forte impegno delle Nazioni Unite”.
Il premier rivendica il ruolo italiano di interlocutore di tutte le parti sul campo, ma non può evitare di parlare delle preoccupazioni espresse direttamente dalla stessa missione Onu nel paese, che prevede un probabile aggravamento della crisi nelle prossime ore/giorni, in corrispondenza con l’atteso massimo sforzo di Haftar per entrare a Tripoli.
La possibilità di un’escalation è stata prevista anche a Washington, per questo qualche giorno fa il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha inviato un segnale forte, secco e perentorio, per chiedere il ritorno allo “status quo ante”, ossia a quella “fragile stabilità” di cui ha parlato Gentiloni. Preoccupazioni che nelle ore precedenti la dichiarazione di Foggy Bottom l’AfriCom, il comando del Pentagono che copre l’Africa, aveva trasformato in azioni, ritirando alcuni funzionari e un team di forze speciali da un’area a ovest di Tripoli per ragioni di sicurezza.
Un aspetto interessante che secondo alcuni osservatori potrebbe portare gli Stati Uniti a uno step-up nella crisi riguarda il capitolo terrorismo: nei giorni scorsi, sfruttando i riflettori internazionali spostati sull’avanzata haftariana a Tripoli, lo Stato islamico è tornato ad attaccare una piccola cittadina diversi chilometri a sud di Sirte, ricordando che se la guerra civile divampa, i baghdadisti possono ritrovare spazi, anche per l’attecchimento delle proprie istanze.
Repubblica ha ottenuto informazioni su un incontro avvenuto lunedì a Roma tra alcuni delegati di Haftar, probabilmente uno dei figli e qualche altro consigliere, e Conte (accompagnato da colui che per l’Aise sta gestendo il dossier: il generale Giovanni Caravelli, mentre il direttore Luciano Carta cura le relazioni internazionali istituzionali, ossia quelle con gli attori esterni).
“A Palazzo Chigi c’è la consapevolezza che senza un accordo in tempi rapidissimi tutto potrebbe degenerare, trasformando la capitale libica in un gigantesco campo di battaglia”, scrive Gianluca De Feo nel suo articolo informato uscito ieri su Rep. “Sono intensamente impegnato sul piano diplomatico, a partire dagli Stati Uniti, dai partner europei e dagli attori regionali più influenti in Libia. Molto intensa è l’interlocuzione con Washington, in particolare con la Casa Bianca”, ha detto Conte.
Sulla Libia, il presidente Donald Trump ha sostanzialmente seguito le orme che il suo predecessore ha lasciato negli ultimi anni di mandato, quando l’ingaggio libico è passato dall’impegno politico-diplomatico del 2015 alle operazioni sul campo dell’anti-terrorismo – l’azione per distruggere la roccaforte califfale di Sirte, i bombardamenti mirati contro i centri logistici jihadisti, le attività di intelligence per disarticolare la catena di comando e approvvigionamento, gli spostamenti dentro e fuori i confini libici (per esempio l’aumento delle operazioni congiunte con la Tunisia).
Adesso che sembra la vigilia di una sanguinosa guerra civile (col rischio di favorire una nuova insorgenza dell’Is), si potrebbe essere creato il terreno perfetto per una dichiarazione di Trump, che potrebbe essere il miglior modo per fermare Haftar. Il generale è da una settimana bloccato alle porte di Tripoli: il suo piano di entrare acclamato in città è naufragato sotto i colpi delle milizia di Misurata che difendono Serraj. Secondo la gran parte degli analisti, però, se non si riesce rapidamente a trovare una soluzione, il rischio è che la situazione si incarnisca dando l’inizio a un confronto senza fine (altro terreno perfetto per i baghdadisti).