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Non chiamateli sovranisti, né in Spagna né altrove

populismo

Il termine “sovranismo” non è solo una cattiva etichetta appiccicata a movimenti che escono dagli schemi del passato. È soprattutto un attributo fuorviante. Che cerca di ricondurre un fenomeno nuovo nei vecchi filoni della cultura del ‘900. Quando gli “ismi” erano appunto lo strumento principe della catalogazione politica. Si parla infatti, di “sovranismo”, ma si intende “nazionalismo” e quindi, almeno in controluce, “fascismo”. Ripensando a quell’antica alleanza che fu la base del “mussolinismo”, (Renzo De Felice) durante l’intero ventennio. Elementi che sono ovviamente presenti nella nuova prospettiva, ma non ne rappresentano certo l’essenza tardiva.

C’è un dato che dovrebbe far riflettere. La caratteristica non solo italiana di una svolta che si è verificata in panorama politico-culturale complessivo. Francia, Germania, Ungheria, Finlandia, per ricordare solo alcuni Paesi, sconvolti da simili eventi. Ed ora anche la Spagna, nonostante la sua forte frammentazione politica che non ha garantito, tuttavia, un’offerta politica adeguata alle attese. Si è di fronte ad una galassia, in cui le diverse forze politiche nazionali si presentano ancora con le proprie specificità, ma con un comune respiro. Sul quale è necessario indagare. Per non lasciar cadere, se non altro, la ricorrente affermazione di Luigi Di Maio, secondo il quale i 5 Stelle non sono né un movimento di destra né di sinistra. Affermazione che va riqualificata, specificando né della “vecchia” destra o sinistra.

Caratteristica comune, tra le diverse esperienze, è la negazione di un precedente equilibrio politico. Conseguenza dell’esaurirsi delle sottostanti correnti culturali. In crisi soprattutto il cosmopolitismo, quale elemento fondante la globalizzazione, ma che in Italia è stato fin dall’inizio qualcosa di più. Il che spiega la maggior forza ed il maggior successo dei nuovi movimenti, seppur nelle due versioni alternative, della Lega e dei 5 Stelle. Per averne un’idea basta guardare al recente intervento di Giuseppe De Rita, sulle pagine del Corriere della Sera. Quella descrizione un po’ stralunata dell’ultima Via Crucis. Quel rito “pieno non dei volti tipici della nostra quotidianità, ma di volti ‘altri’, quasi tutti asiatici ed africani”. Che porta l’autore a temere (giustamente) come “la Chiesa si stia allontanando da noi (romani e italiani) figli primogeniti”. Per rimanere prigioniera di un ecumenismo, che non appartiene più all’intero Occidente.

Ma se questo è vero, almeno in questo quadrante, siamo ormai all’antitesi del’900 che fu il secolo del grande afflato universalistico: il solidarismo cattolico da un lato, l’internazionalismo proletario dall’altro. Con tutto ciò che su queste megastrutture culturali è stato poi costruito, fino a trasformarsi in una sorta di imperativo categorico (il politicamente corretto) che ha segnato un’intera epoca e che ora sta mostrando tutti i segni della sua obsolescenza. E se l’inizio del Terzo millennio è antitesi, essa non può che portare alla riscoperta di un sentimento nazionale come elemento fondante di una nuova identità che si differenzia dagli stilemi del secolo passato. Quindi patriottismo, come difesa, rispetto alle possibili offese (contro gli altri) implicite nel nazionalismo. America o Italy first quasi come un moderno “risorgimento” per combattere le prevaricazioni presunte o reali imputabili al trasferimento di sovranità verso strutture multilaterali. Unità della Nazione e chiusura delle frontiere per respingere l’invasione dei clandestini. E via dicendo.

I mass media, nel tentativo di cogliere l’essenza di questi fenomeni, semplificano il tutto parlando di una destra estrema che conquista le piazze ed il cuore della gente. Si ritorna così alle più rassicuranti categorie del ‘900. Quando, invece, si è di fronte a qualcosa di nuovo. L’emergere di quel sentimento nazionale, troppo a lungo compresso, nel nome di quell’universalismo che, con la globalizzazione, è, almeno in parte, fallito. Più che destra estrema sarà invece la riscoperta delle proprie radici. Il revisionismo di una storia – lo si è visto in Italia con le polemiche sul 25 aprile – che non si presta più ad interpretazioni manichee. Che chiude con l’idea di “parentesi” – la tesi di Benedetto Croce sul fascismo – per riscoprirne il carattere contraddittorio. Senza dimenticare, tuttavia, che quel fenomeno fu anche superamento storico dell’Italietta liberale. Modernizzazione, per quanto passiva (ma su questo c’è da discutere) dell’intero sistema economico e sociale.

Capire la portata di quest’evoluzione diventa quindi essenziale. Non si è di fronte a truppe di invasati – camicie nere e manganelli – ma ad una nuova antropologia, in cui la modernità (caratteristica essenziale di questo tempo storico) si può esprimere in forme diverse dal passato. Può portare ad una crescente adesione – come dicono ad esempio i dirigenti di Vox in Spagna – in cui si ritrovano frammenti delle culture del ‘900. Ma reinterpretate in una chiave diversa. In definitiva una ricchezza nuova, che marginalizza il dogma mercatista per riscoprire il ruolo di uno Stato, completamente diverso dal passato. E l’innesto di quelle tecniche – welfare e direzione politica – che furono una delle caratteristiche degli anni ‘30. Come risposta a quella grande crisi. In un’analogia che non può essere ignorata. Visto che ancora oggi siamo all’indomani di una devastazione economica e finanziaria che ha avuto caratteristiche ancora peggiori, le cui ferite sono tutt’altro che rimarginate.


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