I due passaggi diplomatici attorno al dossier nordcoreano degli ultimi giorni – la visita del presidente della Corea del Sud a Washington e il ritorno di Pechino vicino al Nord – hanno prodotto già aspetti significanti.
Il presidente statunitense Donald Trump ha diffuso via Twitter una dichiarazione in cui riafferma la propria volontà nel procedere con i negoziati. Ieri, in una dichiarazione pubblica da Pyongyang, il dittatore Kim Jong-Un ha detto di essere pronto e disponibile per un terzo incontro con Donald Trump. E l’americano ha ricambiato, anche sul piano delle relazioni personali su cui Kim ha fatto ruotare parte della sua dichiarazione.
I meeting tra i due (uno a giugno 2018, l’altro a febbraio 2019) sono l’aspetto simbolico e di sostanza del sistema negoziale per arrivare a una denuclearizzazione nordcoreana. Mentre il primo di Singapore s’è concluso portandosi dietro un’atmosfera ottimistica sopra ogni progresso ottenuto, il secondo di Hanoi è arrivato dopo otto mesi di semi-stallo del processo e si è chiuso in un fiasco quasi totale (“quasi” perché l’unico reale aspetto positivo è che ancora nessuna delle parti ha abbandonato il tavolo dei negoziati).
Non a caso il commento di Kim – arrivato durante l’Assemblea Suprema del Partito e dopo che il Politburo ha compiuto alcuni passaggi simbolici per risistemare cariche e confermare il ruolo di leader massimo all’erede della dinastia che ha creato il Paese – è stato il primo con cui è stata affrontata direttamente la questione dopo il vertice vietnamita.
Kim dice che la Corea del Nord è interessata solo a un accordo “equo”, vantaggioso per i due paesi. Poi ha invitato Washington a prendere una “decisione risoluta” entro la fine dell’anno sul se continuare o meno i rapporti diplomatici con Pyongyang. Il suo discorso agli eletti all’assemblea è stato ripreso dall’agenzia Kcna e dal Rodong Sinmun, i due principali organi stampa del partito, addetti alla continua propaganda.
E dunque qui non sfugge un richiamo a una retorica già usata dal regime, che vuol sottolineare come sul dossier all’interno dell’amministrazione statunitense ci siano approcci differenti. Da una parte la linea del presidente, che vuole incassare un successo anche per rivenderlo elettoralmente e dunque ha ancora un passo dialogante; dall’altra l’intero apparato di National Security e Foreign Policy che invece tiene una posizione più risoluta. (Nota: non c’è da escludere che sia una tattica pensata dallo stesso Trump per giocare una sorta di “Mutt and Jef” con Kim).
Secondo il nordcoreano, Washington deve avere “un giudizio saggio in un momento critico”, per questo dovrebbe scoprire le carte sulla “metodologia” che vuole affrontare nei negoziati. Ossia: Kim ribadisce che ci sono margini, ma pressa minacciando “il momento”. Non vuol fare un salto nel buio e accettare la completa denuclearizzazione senza che gli Stati Uniti non comincino a rimuovere sostanzialmente le sanzioni. Traiettoria che invece vorrebbero seguire gli americani (e qui c’è il distinguo: perché il presidente Trump ha fatto capire di essere più aperto a soluzioni di quanto non siano le altri parti della sua amministrazione).
“Ciò che è chiaro è che le prospettive per risolvere il problema saranno tormentate e molto pericolose se gli Stati Uniti si aggrappano all’attuale metodo di calcolo politico”, dice Kim: “Il metodo di dialogo in stile americano […] non è adatto a noi costituzionalmente e non ci interessa”. Per il momento sembrano soprattutto parole utili a difendere la propria posizione davanti ai più intransigenti del regime, in un momento in cui l’attenzione interna è concentrata sui passaggi protocollari della leadership.
Kim infatti ha ricordato che comunque con Trump mantiene una “eccellente relazione” (“eccellente” è il termine che ha usato anche Trump per descrivere il rapporto) e che il suo obiettivo è lo sviluppo del paese.