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La giornata non poteva cominciare senza Massimo Bordin

Era uno di casa. Un vecchio amico. Come il borbottio della moka che rompe il silenzio del primo mattino. Prima che prendesse piede il caffè in cialde. Ecco, Massimo Bordin era la moka. Il caffè tradizionale. Lontano, lontanissimo dal ritmo sincopato di chi fa radio e tv. Il contrario di quel che insegnano a qualsiasi corso di dizione e comunicazione. Bordin aveva il suo tono di voce e il suo ritmo. Inconfondibili. E inimitabili. La voce roca di chi fuma e ne ha fumate per una vita intera. Un vecchio telefilm, quegli ispettori di una volta che con uno sguardo capivano tutto. Così distante dai polizieschi di oggi basati su prove del dna e approfondimenti al computer.

Massimo Bordin sfogliava i quotidiani e li raccontava. Li raccontava con le parole e con i silenzi. L’habitué aveva imparato a interpretarli, quei silenzi. Sapeva benissimo quando fossero il preludio a una freddura o a un commento lasciato lì, sospeso. Quell’ironia dolce o quel sarcasmo tagliente. Tipico di Roma e di un’intelligenza magmatica. E di una cultura mai saccente. Bordin metteva insieme i pezzi del bricolage quotidiano e li riassemblava come solo lui sapeva fare. In quei novanta minuti radiofonici, ti prendeva per mano e ti faceva toccare la politica e non solo. Nessuno avrebbe potuto violare il suo copyright. Nessuno sarebbe stato né sarebbe in grado di imitarlo.

Da Radio Radicale, ovviamente. Da radicale. Con lo sguardo a 360 gradi e la fiera, ostinata e mai seriosa resistenza a quel che viene sinteticamente etichettato come giustizialismo. Garantista, sempre. E non parlava mai, e diciamo mai, per sentito dire. Dei casi giudiziari in cui si imbatteva nel suo racconto quotidiano, aveva letto praticamente tutto. Ogni sentenza. Del processo Tortora come del processo Sofri. Per fare due nomi. Era l’archivio storico della cronaca giudiziaria. E la memoria storica della politica. Ricordava partiti, partitini, movimenti, simboli. Tutto. Infaticabile nell’evidenziare dettagli che ai più sarebbero sfuggiti e che invece impreziosivano la tela che lui proponeva ogni mattina. La lettura dei quotidiani non aveva segreti per lui. Scovava una stilettata al terzultimo rigo. Un riferimento non riportato nel titolo. Guardava una pagina e capiva il lavoro che c’era stato dietro quella pagina. Il lavoro. Le discussioni. I litigi. Il regime appunto. Stampa e regime. E accompagnava l’ascoltatotre con una prosa da consumato attore. Anche i suoi colpi di tosse andavano interpretati.

Non ce ne vogliano gli altri protagonisti, gli altri giornalisti, Massimo Bordin era Radio Radicale. Più di qualsiasi altro. Dopo la morte di Marco Pannella, ovviamente. Ma era  probabilmente l’unico in grado di tener testa a Pannella in discussioni che a volte sfociavano in litigi dialetticamente violenti, senza ovviamente strabordare mai nella volgarità. La ferocia delle idee. Il confronto aspro, senza sconti. Il politicamente corretto è roba da tv contemporanea. Non da fumatori incalliti, pronti a scannarsi per un’idea.

Massimo Bordin, che poi in realtà sarebbe massimobordin, dal primo aprile non allietava più le mattinate dei “malati” di politica e di giornalismo. E mai più lo farà. È morto oggi, a 67 anni. E parlare di casualità nell’associare la sua scomparsa al travaglio che sta vivendo in queste ore Radio Radicale, è comportamento per chi vive sulla luna. Bordin è stato Radio Radicale. Non è che ci mancherà. Renderà impossibile l’ascolto di qualsiasi altra rassegna stampa radiofonica.

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