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La Nato, l’Isis e la minaccia da Est. Intervista al generale John Allen

Un’alleanza fatta di uomini, che come gli uomini ha le sue debolezze. Ma che ha garantito settant’anni di pace e continuerà a farlo per i prossimi settanta. Questa è la Nato per il generale John Allen, presidente della Brookings Institution, già comandante della missione Nato Isaf in Afghanistan dal 2011 al 2013, scelto da Barack Obama nel 2015 come inviato speciale degli Usa per la Coalizione globale contro l’Isis. Una leggenda dei Marines, che in questa intervista esclusiva per Formiche.net racconta vecchie e nuove sfide con cui la Nato deve fare i conti, dalla minaccia cinese alla resilienza dello Stato islamico passando per l’immigrazione di massa dal Sud.

Generale Allen, crede che l’Alleanza Atlantica durerà ancora a lungo?

Non ci sono dubbi, questo è solo l’anniversario dei primi settant’anni. Il trattato di Washington è ancora solido e dal 1949 ha superato ogni tipo di ostacolo. Le minacce, che siano interne o esterne, ci sono sempre state, ma l’Alleanza ha sempre mostrato una grande forza di adattamento.

Qual è stato il più grande successo della Nato in questi settant’anni?

Il più grande risultato è sotto gli occhi di tutti: in questi settant’anni l’Europa è rimasta integra, democratica e soprattutto in pace. Era questo lo scopo iniziale della Nato: un’alleanza non solo difensiva, ma integrativa. L’Unione europea ha un debito nei confronti della Nato, che in questi anni ha fatto da deterrente contro le aggressioni nel Vecchio Continente e più in generale nel resto del mondo.

Quale invece il più grave errore commesso?

Le organizzazioni internazionali rispondono agli impulsi degli uomini che le compongono, e gli uomini non sono perfetti. Talvolta anche i sistemi democratici possono abbassare la guardia e mostrarsi compiacenti. Dopo la caduta del muro di Berlino la Nato ha sperimentato un periodo di disorientamento. È nata come unità di contenimento assieme alla Seato e al Cento. Queste ultime due sono scomparse. Finita la Guerra Fredda anche la Nato ha rischiato di arrugginirsi. Ha riscoperto il suo dna all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001, quando per la prima volta è stato attuato l’articolo 5 della Carta. E lo stesso è accaduto dopo l’intervento in Crimea della Russia e la guerra in Donbass.

Il presidente Donald Trump richiama di continuo gli alleati europei che non rispettano gli impegni finanziari presi con la Nato. Lei crede che il progetto di una Difesa Comune Europea possa essere un freno per l’Alleanza?

Abbiamo tutti firmato il Trattato della Nato. Non mi sembra invece che esista un Trattato che istituisce una Difesa comune europea. I Paesi alleati devono fare una scelta coerente. Sostenere onorando gli impegni presi un’alleanza comprensiva per la sicurezza transatlantica. Oppure prendere decisioni in solitaria supportando un progetto futuro per la Difesa europea e venendo meno agli obblighi assunti.

La Nato è stata creata in funzione antisovietica. Oggi la Russia è davvero ancora il nemico numero uno o la Cina ha preso il suo posto?

Russia e Cina costituiscono due minacce molto diverse. La Nato è un’alleanza militare e la Russia costituisce una minaccia di tipo militare. La sfida cinese è più complessa. Quando mi sveglio la mattina non penso alla Cina come al nemico numero uno degli Stati Uniti o di un singolo stato europeo. I cinesi hanno una straordinaria capacità di promuovere i loro interessi economici e spesso questi interessi contrastano apertamente con la solidarietà europea e transatlantica, con lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani.

Come si spiega allora le porte che alcuni Stati europei, Italia in primis, hanno spalancato agli investimenti cinesi nelle infrastrutture critiche?

Oggi qualche Stato europeo non si rende conto dei rischi che si celano dietro l’attivismo economico cinese, arriverà il giorno in cui sarà costretto ad aprire gli occhi. Il prezzo in palio è alto: dipendenza economica e politica da Pechino, ma soprattutto incapacità per l’Europa nella sua interezza di prendere decisioni indipendenti. La Nato ha il compito di vigilare sulla minaccia cibernetica cinese, ma a questo altro tipo di pericolo devono far fronte l’Ue e i singoli Stati membri.

Anche dal fronte Sud provengono gravi minacce all’esistenza stessa della Nato. Cosa può fare l’Alleanza per favorire la stabilità nel Nord Africa?

Garantire la stabilità è una missione fondamentale della Nato fin dalla sua nascita. La minaccia russa da Est non è l’unico pericolo per la tenuta dell’Alleanza. L’immigrazione incontrollata dal Sud mette a serio rischio la tenuta dell’Europa stessa e può creare le condizioni per la fioritura del radicalismo. È un fenomeno che ha profonde ripercussioni sulla polarizzazione della politica e sullo scontro interno alle società occidentali. La Nato deve elaborare una nuova strategia per favorire la stabilità economica dei Paesi del Nord Africa e scoraggiare l’immigrazione di massa.

Che bilancio fare invece dell’operato della Nato in Medio Oriente? L’Isis è stato davvero sconfitto come dice Trump?

Saremmo folli a credere che l’Isis sia stato sconfitto una volta per tutte. Non lo annienteremo mai finché non sconfiggeremo la sua narrazione. Fin quando in quella regione del mondo rimarrà la miseria Al Qaeda e Daesh avranno sempre mercato. Molti degli adepti sunniti che si sono uniti alla causa jihadista in un primo momento erano sicuri di costituire una forza di liberazione dalle violenze delle milizie sciite. Non è passato molto tempo prima che l’Isis mostrasse il suo vero volto dispotico e disumano.

Cosa rimane oggi dello Stato islamico?

L’Isis è composto di tre livelli che si compenetrano a vicenda. Le roccaforti fisiche in Siria e Iraq, il “cuore” dell’Isis, sono state spazzate via. Poi c’è un Isis “provinciale” che ha fatto fiorire nel mondo centinaia di formazioni terroristiche, Ansar al-Shari’a e Wilāya nel Nord Africa, Ansar Beit al-Maqdis nel Sinai, Boko Haram in Nigeria, un vero e proprio franchise globale. Infine lo Stato islamico sopravvive nel web, dove continua a reclutare jihadisti.

Cosa ha imparato sulla Nato quando era comandante della missione ISAF in Afghanistan?

Ho prestato servizio come giovane ufficiale tanto sul fianco Nord in Norvegia quanto a Sud nella sesta flotta del Mediterraneo. La guida dell’Isaf in Afghanistan è stata la mia prima vera esperienza come comandante della Nato. Ho sempre avuto un grande rispetto per l’Alleanza. Quando ho lasciato Kabul questo rispetto si è trasformato in profonda ammirazione.

In Afghanistan ha avuto sotto il suo comando 150.000 soldati. La diversa nazionalità ha mai creato problemi?

Mi sono più volte ritrovato a guidare operazioni di “Batterfield Circulation”. Ho trascorso intere settimane con il comando tedesco nel Nord del Paese, a Mazar-i Sharif, con la coalizione a guida italiana ad Herat, nell’Ovest, e con il comando “Capital” guidato dai turchi a Kabul. Ho imparato a rispettare i singoli contributi nazionali degli Stati Nato, anche dei più piccoli. Quando lasciavo il campo su un elicottero era per me motivo di grande orgoglio trovarmi davanti divise e stemmi di nazioni diverse, e ho sempre salutato quei soldati nella loro madrelingua. Ma c’è un momento particolare della mia permanenza in Afghanistan in cui ho realizzato il senso profondo della Nato.

Quale?

Spesso ho dovuto seguire dalla tenda del comando generale, circondato da schermi, operazioni delle forze speciali ad altissimo rischio. Una notte ho dato ordine alla Sas di liberare degli ostaggi dei Talebani in una zona montuosa nel Nord del Paese. Un’operazione pericolosissima, che prevedeva uno scontro ravvicinato col nemico. In quelle ore ho visto nella mia tenda attorno a me, con la mia stessa apprensione, soldati provenienti da quindici Paesi diversi. In quel momento ho capito che fatta eccezione per le bandiere sulle nostre divise fra di noi non c’era alcuna differenza.

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