Alla Casa Bianca, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, incontra il presidente Donald Trump: un faccia a faccia che anticipa di due giorni la cerimonia che porterà a Washington i 29 ministri degli Esteri dei paesi membri, e che ha come obiettivo se non altro una photo-opportunity con dichiarazioni morbide, di rito (è un auspicio che arriva dagli ambienti Nato), da parte dell’americano – che spesso, sia da candidato che poi da presidente, ha criticato l’Alleanza.
Un evento celebrativo si svolgerà nei prossimi giorni in un luogo simbolico: l’“Andrew W. Mellon Auditorium” del dipartimento di Stato, la stessa sala dove fu firmato il Trattato di Washington, il 4 aprile 1949, dai dodici membri fondatori dell’Alleanza atlantica. Al The Anthem ci sarà poi la cerimonia per i settanta anni dell’Alleanza atlantica. Al termine, verrà adottata una dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri degli stati membri della Nato, che ne “ribadisce l’attualità e la centralità” (commento ufficiale).
Stoltenberg, che giovedì scorso ha avuto la conferma del suo ruolo fino al 2022, terrà anche un discorso al Congresso, dove era stato invitato dai leader della politica americana – in forma bipartisan, dalla democratica presidente della Camera e dal capo della maggioranza repubblicana al Senato – nei giorni in cui aumentavano le preoccupazioni degli alleati europei per le posizioni prese dalla Casa Bianca sulla Nato.
Trump, “in un ruolo improbabile per il presidente del membro fondatore” come scrive France 24 in un’analisi, ha più volte messo in dubbio l’utilità dell’alleanza e contestato il peso che diversi dei partecipanti scaricano sulle spalle americane in termini di impegno: sia economico, sia pratico-operativo. Per esempio: ha contestato il comportamento tedesco, perché nonostante la Germania sia la più grande economia europea non raggiunga il 2 per cento di spese militari come convenuto nell’assemblea Nato del 2014; oppure ha avuto uscite spinte relative all’articolo 5, la collegialità nella difesa (per dire, fece una battuta sul se valga la pena difendere piccoli stati “aggressivi” come il Montenegro).
Nel precedente incontro con il segretario, il presidente americano aveva espresso critiche nei confronti di chi si muoveva sotto il tetto del due per cento (quasi tutti i paesi, in realtà) iniziando la sua conferenza stampa congiunta dicendo: “Guarda il grafico. Dai un’occhiata al grafico (quello con le spese militari, ndr). È pubblico. E molti paesi non stanno pagando quello che dovrebbero. E, francamente, molti paesi ci devono una enorme somma di denaro da molti anni, sono in debito per quanto mi riguarda, perché gli Stati Uniti hanno dovuto pagare per loro”.
La linea è dura, tuttavia non è nuova: già ai tempi dell’amministrazione Obama, considerata liberal e globalista, gli Stati Uniti pressavano perché gli alleati contribuissero maggiormente alle attività militari (anche in ambito non Nato: vedi per esempio la guerra allo Stato islamico, sui cui Washington è tornata a chiedere condivisione anche adesso, nella fase in cui servirà mantenere l’impronta di sicurezza in Siria e Iraq per evitare il ritorno di insorgenze).
L’argomento sarà certamente centrale nel summit annuale programmato per dicembre, a Londra, ma intanto Stoltenberg, parlando ai giornalisti prima di lasciare il quartier generale Nato di Bruxelles, ha convenuto che Berlino debba tener fede agli impegni presi: “Mi aspetto che la Germania possa rimediare all’impegno assunto insieme a tutti gli altri alleati della Nato”, ha detto l’ex primo ministro norvegese. “Mi aspetto che rispettino gli impegni di spesa con il piano che hanno presentato alla NATO”: i tedeschi hanno promesso di aumentare la spesa per la difesa in termini reali dell’80 per cento in un decennio.
Washington-Berlino non sono in empatia: Trump ha posizioni piuttosto diverse da quelle di Angela Merkel, e i messaggi incrociati passano dal piano Nato a quello commerciale (lo scontro sul campo dell’automotive, per esempio), alla dialettica forte su temi strategici come il 5G o il progetto di raddoppiamento del gasdotto Nord Stream. Il confronto è un paradigma della situazione che vivono gli Stati Uniti all’interno dell’Alleanza e dell’alleanza stessa, dove Washington resta l’azionista di maggioranza, ma l’amministrazione Trump ha un feeling diretto soltanto con alcuni paesi (come la Polonia, per esempio), mentre con altri la situazione è più delicata (Germania appunto, ma anche Francia).
Domani a Washington sarà presente anche il ministro degli Esteri italiano, Enzo Moavero Milanesi: la Farnesina fa sapere che ci saranno una serie di incontri bilaterali nell’ottica della “consolidata alleanza e degli stretti legami economici e commerciali”. Moavero vedrà il consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, il senior advisor della Casa Bianca, Jared Kushner, il senatore Lindsey Graham, (che ha il compito informale di consigliare Trump sui dossier esteri) e altri elementi del Congresso. Poi, vedrà il segretario di Stato, Mike Pompeo, e prenderà parte alla cerimonia celebrativa.
Ieri l’ambasciatore americano in Italia, Lewis Eisenberg, ospite di un evento organizzato per l’anniversario Nato dal Centro Studi Americani, ha ribadito l’importanza e il senso profondo che l’alleanza ha per l’Italia e per i rapporti Roma-Washington. Eisenberg ha sottolineato tra l’altro che in questo momento la Nato e i suoi membri si trovano ad affrontare sfide crescenti collegate alla Russia (che sta espandendo la sua influenza anche in Africa, proiettandosi verso il Mediterraneo, e che è tornata in cima all’agenda dell’Alleanza, nata settanta anni fa proprio per fronteggiare l’Unione Sovietica), e sottolineando che comunque Mosca non è l’unica minaccia internazionale per la Nato.
“Una Cina sempre più assertiva sta tentando di sovvertire l’unità europea e transatlantica”, ha detto Eisenberg, che ha ricordato i rischi per l’Italia dopo la firma del discusso (e contestato da Washington) Memorandum d’Intesa con Pechino sulla Nuova Via della seta. Gli Stati Uniti hanno denunciato che l’ingresso di aziende cinesi collegate al governo nei sistemi di telecomunicazioni dei membri, in particolare il 5G, può mettere a repentaglio la condivisione di informazioni di intelligence tra alleati.