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La raccomandazione dell’Ocse sulle Popolari è un’invasione di campo

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È ben comprensibile che, nel loro processo evolutivo, le istituzioni internazionali, in particolare quelle nate all’indomani della Seconda guerra mondiale, abbiano una stringente necessità di riqualificare, per giustificarla, la propria esistenza e utilità nei confronti degli stati membri riformulando, rispetto alle finalità originarie, obiettivi e mission. Prendiamo, ad esempio, l’Ocse. Come informa il sito istituzionale della Farnesina “il Bilancio dell’Ocse garantisce il funzionamento e le attività dell’Organizzazione e costituisce la base per la determinazione dei contributi che gli Stati membri sono tenuti a versare. Il bilancio complessivo per il 2016 è stato di circa 370 milioni di euro”.

L’Italia è il sesto Paese contributore, dopo Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito, con una quota statutaria intorno al 4,2%” pari a oltre 15 milioni di euro. “Gli obiettivi dell’Ocse – fonte ancora Farnesina – tendono alla realizzazione di più alti livelli di crescita economica alla luce del concetto di sviluppo sostenibile, di occupazione, di tenore di vita, favorendo gli investimenti, la competitività e mantenendo la stabilità finanziaria sono altresì orientati a contribuire allo sviluppo dei Paesi non membri. Questi obiettivi vengono perseguiti attraverso varie attività quali l’individuazione di principi comuni, la predisposizione di intese con valore vincolante e di Convenzioni”. Queste finalità dovrebbero essere sufficienti per giustificarne l’esistenza. Al contrario, ci troviamo oggi di fronte alla ricerca di un nuovo posizionamento nel complesso quadro geopolitico ed economico che si è venuto a creare nel nuovo mondo globalizzato.

È un processo lungo e difficile, lo sappiamo bene. Basta pensare al complesso e faticoso riposizionamento strategico della Nato ancora alla ricerca di stabili, quanto necessari, equilibri strategici. Ma la ricerca di una nuova identità dell’Ocse, a oltre 70 anni della sua fondazione e a 59 anni dalla nuova convenzione di Parigi entrata in vigore nel 1961, non può, nel caso del nostro Paese, che contribuire ad aggiungere confusione e incertezza nei mercati, negli operatori finanziari, nelle imprese, nei risparmiatori e nelle famiglie come se non fossero già sufficienti le raccomandazioni formulate periodicamente dalla Banca Centrale Europea, dalla Commissione, dal Fondo monetario internazionale, dalle agenzie di rating (Standard and Poor’s, Mooody’s, Fitch) e, in ultimo, dalla Banca d’Italia. È quello che sta accadendo dopo che l’Ocse ha deciso di riaccendere i riflettori sulle Banche popolari italiane con una raccomandazione che suona proprio come invasione di campo. Forse, gli analisti di Parigi non sono ben informati sugli sviluppi della “riforma” che ha riguardato le banche in questione ma della quale richiedono, indirettamente, una rapida applicazione. Non sanno che quella “riforma” è attualmente nelle mani della giustizia europea e che la relativa sentenza è attesa non prima della fine dell’anno. Ed è ben comprensibile che non lo sappia perché la propria attenzione dovrebbe essere concentrata sulla cooperazione e sullo sviluppo economico invece che nei campi di intervento della Bce e della Commissione Ue.

È bene allora spiegare all’Ocse che la legittimità della “riforma” delle Banche popolari italiane è sotto osservazione da parte della Corte di Giustizia Europea dopo il rinvio deciso dal Consiglio di Stato italiano per i dubbi emersi sull’applicazione di quelle norme e sulle differenze in materia delle norme nazionali e sovranazionali. È, poi, di tutta evidenza, da un punto di vista sostanziale, che la fissazione di una soglia (8 miliardi di euro di attivo) oltre la quale la banca cooperativa è obbligata alla trasformazione in Spa, non solo risulta esigua ma anche priva di qualsiasi base giuridica. Un unicum in tutta Europa che produce una violazione del diritto comunitario in particolare sotto il profilo dei principi che tutelano il mercato e la libera circolazione dei capitali e dei servizi in quanto, ingiustificatamente, limitate dalla soglia dimensionale introdotta.

C’è poi una questione legata a particolari interessi finanziari. Il sistema bancario italiano è già in larga parte in mano straniera. Allora, forse, l’intento reale della raccomandazione è quello di completare l’opera a beneficio dei maggiori global player internazionali. Ma questo di certo non significa rimettere al centro dell’attenzione lo sviluppo economico né tanto meno la cooperazione e da ultimo la concorrenza ma, al contrario, è l’ennesimo tentativo di favorire la formazione di un mercato globale finanziario oligopolistico. Oggi, grazie proprio a quella “riforma”, il 36% dell’azionariato delle banche che prima erano cooperative è nelle mani di fondi speculativi, a tutto discapito degli interessi italiani. Senza contare che l’approssimazione con la quale è stata varata ha prodotto, per il mercato bancario italiano, una sfiducia tale da impedire gli importanti, quanto necessari, aumenti di capitale. Nel suo rapporto sull’Italia, l’Ocse pone l’attenzione sull’indebolimento che la nostra economia sta attraversando nell’attuale fase di rallentamento della congiuntura internazionale ma, proprio per questo, appare ancora più surreale la raccomandazione auspicata sulle Popolari. Una prescrizione che rischia come unico effetto quello di rendere le banche del territorio soltanto appetibili prede di fondi speculativi stranieri con strategie e obiettivi operativi in orizzonti di breve periodo che non potranno che avere ripercussioni negative sul tessuto produttivo e imprenditoriale.

Con il caos che investe oggi l’Europa, è difficile capire come possa essere questa la principale preoccupazione per l’Ocse. Negli ultimi cinque anni nessun Paese dell’Ue è stato sottoposto a una dose così massiccia di raccomandazioni, prescrizioni ed esortazioni sullo stato di salute delle banche, col risultato di aver favorito con “tutti i mezzi” il passaggio in mani straniere di oltre il 36% del capitale di gran parte del sistema bancario italiano. Fatto senza precedenti negli altri Paesi dell’Unione.


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