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Le brutte notizie dell’Ocse e lo stallo, tutto politico, dell’Italia

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Siamo arrivati al punto che le brutte notizie sul fronte dell’economia non fanno più notizia. C’è una sorta di assuefazione, foriera di una impotenza che alimenta la rassegnazione. Ad un passo dalle porte dell’inferno. È stato così per le ultime previsioni dell’Ocse, durante la presentazione del rapporto sull’Italia da parte di Ángel Gurría, che di quell’organismo è il segretario generale. “Che si facciano gli affari loro”: libera traduzione del pensiero di Luigi Di Maio, quando, rivolto all’Ocse, chiede: “no intromissione”. Dimenticando, forse, che l’Organizzazione sta facendo solo il suo mestiere, per il quale l’Italia paga, ogni anno, quasi 16 milioni. Più esattamente il 4,2 per cento del finanziamento complessivo, pari a 370 milioni.

Quasi british, invece, la reazione del ministro dell’economia, Giovanni Tria, chiamato a commentare, a caldo, il rapporto. Analisi condivisibile quella dell’Ocse, anche se condita da un pizzico di eccessivo pessimismo. Del resto non poteva essere altrimenti. In essa prevale il tendenziale, che sottovaluta l’impatto positivo del reddito di cittadinanza e di “quota cento” per le pensioni. Se ne terrà, invece, conto nel “programmatico” del Def. Che dovrà essere licenziato per il 10 aprile. Annuncio che costituisce una notizia. Nei giorni passati, infatti, si pensava che il Def dovesse limitarsi solo al quadro tendenziale. Per evitare di affrontare il nodo della manovra necessaria per evitare l’aumento dell’Iva (e non solo) per il 2020. Cosa quanto mai indigesta nell’imminenza della campagna elettorale per le europee. Comunque Tria è apparso tranquillo. L’Ocse non parla di manovra correttiva. E questo, al momento, è sufficiente. Della serie: chi si accontenta, gode.

Non l’hanno invece presa bene gli altri membri del governo. A partire dal presidente del consiglio, Giuseppe Conte. La cui reazione non si è fatta attendere in un post sui Facebook, in attesa di un successivo incontro, durante il quale rincarare la dose. Le tesi dell’Ocse è detto: “sottostimano completamente l’effetto positivo sul Pil delle misure espansive che abbiamo introdotto con la legge di bilancio“. Vecchio ritornello declinato in versioni diverse, all’insegna di quel “vedrete: il 2019 vi stupirà” che rischia di essere scritto negli annali della comunicazione farlocca. Pieno dissenso, quindi, da parte di Palazzo Chigi, che spera in un ravvedimento. Nell’incontro previsto per oggi, verrà illustrata “l’attuazione della nuova fase della nostra politica economico-sociale, incentrata su un piano di investimenti e di riforme strutturali senza precedenti”. Auguri.

Più diretto, come al solito (verrebbe da dire) il commento di Matteo Salvini. Risposta centrata sulle critiche a “quota cento”, che “darà un lavoro sicuro a più di 100mila giovani italiani e ne sono orgoglioso. Questo significa costruire il futuro, questa sarà vera crescita sociale ed economica”. Tutto il resto se proprio non è noia, è qualcosa che può tranquillamente scivolare addosso. “Se mi chiedono di tornare indietro, – ha concluso – non hanno capito nulla”.

Fin qui le polemiche. Ma quali sono gli elementi di novità dell’analisi? Rispetto a quanto si è già visto, ad esempio il documento di Confindustria, un maggior pessimismo. Le previsioni per l’anno in corso sono una decrescita del Pil pari allo 0,2 per cento. Quindi peggio della soglia psicologica della “crescita zero” su cui lo stesso Tria aveva concordato, nei giorni precedenti, sollevando le rampogne dei suoi colleghi di governo. Al tempo stesso il rapporto debito – Pil, per effetto della mancata crescita e dell’aumento del deficit di bilancio, raggiungerebbe quota 134 per cento. Un sentiero di crescita che non lascia tranquilli, ma potrebbe innescare sgradevoli sorprese.

È bene fermarsi alle sole previsioni per l’anno in corso. Troppe sono le variabili, non solo economiche e finanziarie che condizionano il futuro: a partire dalle prossime elezioni. Il set dei dati, del resto è sufficiente per illustrare il vicolo cieco in cui il Paese si è cacciato. Non può realizzare una manovra di contenimento, sia sul fronte delle entrate sia su quello ancor più ipotetico della spending review, per non accentuare lo stato di crisi dell’economia reale. Del resto forzare ulteriormente la situazione, puntando sulla crescita delle esportazioni, congiuntura internazionale permettendo, sarebbe una follia. L’Ocse stesso prevede, per i prossimi due anni, un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pari al 2,4 per cento del Pil. Accumulo di risparmio che non trova possibilità di investimento all’interno ed è quindi destinato a prendere, come al solito viene da dire, la via dell’estero.

Al tempo stesso, manovre di carattere espansivo sono precluse non tanto dalla crescita del deficit di bilancio, che può essere anche giustificato dalla cattiva congiuntura, facendo appello alla valvola del deficit strutturale corretto per l’andamento del ciclo. Ma dalla dinamica del debito che continua a crescere ad un ritmo addirittura superiore a quello degli anni precedenti. Un cul de sac: come si vede destinato a rendere quasi permanente quella situazione di ”stallo” di cui ha parlato Ángel Gurría e che tanto ha fatto inquietare i 5 stelle. L’incognita più rilevante è quella del mercato. Come reagirà, quando i contorni della situazione italiana diverranno più nitidi? L’esperienza passata, quella del 2011, può fornire un possibile schema interpretativo. Anche se i fondamentali di allora non erano quelli di oggi. La crisi indotta dalla crescente difficoltà nel finanziare le emissioni dei titoli di stato determinò lo smottamento dei vecchi equilibri parlamentari e l’avvio di una nuova fase politica.

Oggi anche questa soluzione appare molto più complicata. Il “nuovo”, purtroppo, non solo non ha prodotto i risultati sperati, ma si è tradotto in un ulteriore arretramento del Paese. Ipotizzare, quindi, ulteriori epocali cambiamenti è una difficile scommessa, visto l’assenza di possibili protagonisti. Rimane il realismo di una rigenerazione delle forze politiche esistenti. A partire dalla Lega, che, tuttavia, deve cambiare. Assumere sempre più un profilo istituzionale, a volte messo in dubbio da iniziative estemporanee. Si pensi alla questione delle riserve auree, cavalcata da alcuni suoi esponenti di primo piano. Finché rimane questo dualismo, seppur in qualche modo giustificato dal pathos elettorale, è difficile andare avanti. Ed il Paese rischia ulteriormente di regredire. Per cui sarà poi più difficile risalire la china.

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