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Mio padre, la Nato e le ragioni della scelta atlantica. Parla Maria Romana De Gasperi

“Fu una scelta di campo, una scelta sofferta”. Maria Romana De Gasperi ci accoglie nel suo studiolo romano. Un cimelio vivente di suo padre Alcide, l’uomo che nel dopoguerra, da presidente del Consiglio e fondatore della Dc, si mise sulle spalle un’Italia in ginocchio ed è oggi ricordato fra i “padri” dell’Europa unita. Con lei ripercorriamo insieme i mesi e i giorni che portarono l’Italia ad aderire alla Nato, settant’anni fa. Mesi e giorni che lei visse da figlia primogenita, e segretaria personale, dello statista trentino. E di cui ricorda con Formiche.net apprensioni, paure, sogni e speranze.

Settant’anni fa nasceva la Nato. L’Italia si sedette come socio fondatore al fianco di Stati che aveva combattuto fino a poco prima. Come fu possibile?

De Gasperi riuscì a trasformare l’Italia da ex-nemico a collaboratore di pace. Non fu un percorso facile. Quando per la prima volta da presidente si recò a Londra dagli alleati gli fecero trovare sulla scrivania le foto dei crimini di guerra fascisti. Dovette prendersi sulle spalle le colpe di chi lo aveva perseguitato.

Né mancarono problemi in casa. L’adesione italiana alla Nato arrivò dopo tre giorni e tre notti di una estenuante seduta fiume a Montecitorio…

Ricordo questa grande battaglia alla Camera. I comunisti erano su tutte le furie. Un giorno Gian Carlo Pajetta balzò in piedi sulla sedia e cominciò ad accusare De Gasperi puntando il dito contro di lui e dandogli di continuo del tu. Mio padre non si scompose, come suo solito. Si alzò, e con voce ferma gli disse: “Giovanotto, mi dia del lei”. Non fiatò più una mosca.

Di cosa lo accusavano i comunisti?

Di voler svendere il Paese agli americani. Quelli di allora sì che erano veri comunisti, gente che davvero voleva prendere il potere. Per fortuna Togliatti ebbe la lucidità di frenare certe spinte rivoluzionarie. Il Pci aveva capito ormai i limiti dell’Unione Sovietica e sapeva di dover evitare la lotta armata. Nel 1949 l’Italia era già militarmente ed economicamente legata agli Stati Uniti d’America.

Che rapporti intercorrevano all’epoca fra suo padre e Togliatti?

C’era un rapporto di correttezza politica. Quando i comunisti erano al governo con i democristiani i Consigli dei ministri finivano spesso senza grandi litigi. Uscito dal Viminale però Togliatti non perdeva occasione di attaccare di fronte ai giornalisti De Gasperi e la Dc, e di questo mio padre si lamentò più volte.

E dal socialista Nenni riceveva gli stessi attacchi?

Nenni era stato nascosto con mio padre nelle cantine del Seminario lateranense durante l’occupazione nazista. Avevano un rapporto umano cordiale. Ci fu in quei mesi del 1942-43 anche un accenno di collaborazione futura fra socialisti e democristiani, ma Nenni si oppose. “Mi spiace, ma mi metterò con chi vincerà le elezioni” disse a mio padre. Era sicuro che i comunisti avrebbero avuto la meglio alle urne. E invece non fu così.

La scelta atlantica fu una scelta di campo, in funzione antisovietica. Che percezione c’era in Italia allora del “pericolo rosso” da Est?

Ci fu un momento in cui mio padre ebbe l’impressione che i sovietici stessero preparando un’insurrezione armata in Italia, così come avevano già fatto in Cecoslovacchia e Polonia. All’epoca della firma del Patto atlantico la Russia non era più la potenza che aveva collaborato con gli Stati Uniti durante la guerra, quell’intesa si era già interrotta. E l’Italia aveva il più grande partito comunista europeo. Una presa del potere da parte di socialisti e comunisti poteva essere sfruttata da Mosca.

Solo i comunisti mostrarono remore per l’adesione alla Nato?

Socialisti e comunisti lo combatterono in ogni sede per la sua scelta atlantica. Il resto dei partiti lo sostenne, ma spesso tiepidamente, e non mancarono resistenze interne alla Dc. Non si sapeva come l’America avrebbe aiutato un Paese ex nemico come l’Italia. Mio padre fece di tutto per riaccreditarci di fronte agli alleati. Anche gesti simbolici, come la grande e colorata parata degli ex Volontari della Libertà che fece sfilare per il centro di Roma.

Quando De Gasperi riuscì a convincere Washington delle buone intenzioni italiane?

La svolta arrivò con il viaggio negli Stati Uniti del 1947. Nacque da un semplice invito a una conferenza. De Gasperi riuscì a trasformarlo in un appuntamento cruciale con gli alleati e in una concreta richiesta di aiuto finanziario.

Come ci riuscì?

Lo seguii in viaggio per Washington, preparandogli i discorsi giorno per giorno. All’inizio i suoi interventi si limitavano a poche parole a margine di pranzi, cene e ricevimenti in hotel. Man mano che i giorni passavano i suoi contatti con il governo americano si infittivano. De Gasperi sperava di avere incontri bilaterali, e invece veniva sempre ricevuto in pubblico. Il penultimo giorno, sconsolato, mi sussurrò: “Ho paura che tornerò a casa a mani vuote”. Non fu così: tornò con un assegno della Export Import Bank da 100 milioni di dollari e la garanzia di un’amicizia. Quando fece ritorno in America tre anni dopo trovò uno spettacolo ben diverso. Fu accolto da una parata festante a Broadway guidata dal sindaco di New York Fiorello La Guardia.

L’entrata dell’Italia della Nato fu una grande vittoria politica per De Gasperi. La sua più grande delusione, per sua stessa ammissione, fu di non riuscire a proporre una simile alleanza europea…

La Ced (Comunità europea di difesa, ndr) fu anzitutto il suo più grande sogno, costruito assieme a Robert Schuman e Konrad Adenauer, due giganti di cui oggi parliamo troppo poco. Ho avuto la fortuna di conoscerli e vederli insieme. Persone di grande fede nell’umanità. Dopo una guerra così disastrosa riuscivano ancora a immaginare un’Europa unita.

Perché De Gasperi sognava un esercito europeo unito?

L’esercito era un tassello fondamentale della costruzione europea. Il primo passo fu mettere in comune con la Ceca le risorse economiche che avevano fatto da pomo della discordia fra Paesi europei, il carbone e l’acciaio. La Ced era il passo successivo. Ricordo un’accesa discussione fra De Gasperi, Schuman e Adenauer e i rispettivi entourage sulla forma che questo esercito avrebbe dovuto prendere. Si discorreva addirittura sul colore delle divise. Ogni tanto la voce di mio padre interrompeva la conversazione: “Va bene, ma a chi risponderà questo esercito?”. Sapeva che senza un’unione politica era velleitario parlare di un’unione militare.

Tant’è che il sogno si infranse dall’altra parte delle Alpi…

Mio padre attese fino all’ultimo prima di presentare la ratifica del trattato al Parlamento, sapeva che ci sarebbero state difficoltà. Lasciò andare per prima la Francia, che lo bocciò. Mendès France non ebbe il coraggio di proseguire su quella strada. E così in tutti questi anni non siamo riusciti a costruire una vera comunità europea. È un pericolo continuare così.

Di quale pericolo parla?

L’Inghilterra se ne sta andando, e anche l’Italia medita di uscire. L’allargamento dell’Ue ad Est non è stato gestito nel migliore dei modi, alcuni di quegli Stati hanno preso molto e dato indietro poco, perché non hanno una storia e uno spirito comunitario. Forse nel prossimo futuro questo spirito risorgerà da un piccolo gruppo di Paesi. Spero che quel giorno l’Italia, come avvenne nel dopoguerra, sia parte di quel gruppo.

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